Chi era Hans Magnus Enzensberger che è morto ieri mattina a Monaco a 93 anni? Certamente era un poeta paradossale che scriveva poesie per chi odia la poesia ed era un eccellente produttore di paradossi, ma non è questo un motivo sufficiente per la celebrazione che merita. Probabilmente la sua miglior qualità – un poi come “l’uomo senza qualità ” di Musil – è che aveva, ha avuto, molte e grandiose caratteristiche, ma quasi tutte fuori tempo. Essendo nato nel 1929 ha detto di “esser vissuto nel fascismo” ma senza sapere che stava vivendo nel fascismo, detestava la Repubblica Federale Tedesca per il suo consumismo all’americana, ma al tempo stesso si rendeva conto che non esisteva una vera alternativa.

La gloria maggiore, per un vero intellettuale letterato e poeta come Hans Magnus fu la matematica e la commistione delle arti come la commistione delle rivoluzioni e delle utopie per provare davanti al suo stesso specchio di intellettuale cangiante la prova di quel che esiste e di quel che potrebbe esistere: aver scritto bellissimi libri per bambini allo scopo di insegnare sia a loro che ai genitori quanto sia impossibile oltre che deprecabile, essere ignoranti in matematica e ripetere di non poter sopportare le equazioni e persino le tabelline. Era, è stato, un uomo di sinistra ed era curiosissimo di tutto ciò che appariva di sinistra, salvo saturarsene presto e poi detestare ciò di cui si erta innamorato. Gli accadde a Cuba dove andò a vivere nel biennio folgorante 1968-1969 che segnò l’uscita di Che Guevara dalla Cuba castrista per andare ad esportare le rivoluzioni che fallirono e da cui fu sepolto. Il regime castrista non era benevolente, ma era proprio un regime: rivoluzionario, anti libertario, sordo alle richieste delle libertà civili comprese quelle di orientamento sessuale e in questo paradossalmente più vicino al franchismo fascista spagnolo.

Hans disse di non essersi mai fatto incantare dalla retorica di Fidel, dal suo straripante verbosismo con cui ammanniva attraverso la flebo degli altoparlanti e dalle radio un pensiero privato nazionalista e trasudante retorica e si dedicò a difendere un poeta cubano perseguitato dal regime. Ciò lo fece entrare in conflitto frontale con Gunter Grass che apparteneva alla stessa generazione di tedeschi che ebbero un’infanzia sotto la svastica, scelsero poi il socialismo o il comunismo come Bertold Brecht che, assaggiata Hollywood con l’Opera da Tre Soldi, fece marcia indietro scelse Berlino Est. E insomma lo scontro sul socialismo cubano tra Grass ed Enzensberger segnò un’epoca di malintesi ideologici, speranze promettenti e fallite, negazioni della realtà, sostituzioni della realtà con sogni che avevano il difetto di non attecchire sulla realtà. Scrisse molto sui fallimenti intellettuali ma lui stesso riuscì a sfuggire al comune destino di una generazione nata di contropiede fra la catastrofe nazista, la voglia di socialismo dialogante col mondo sovietico e il rifiuto dall’americanismo che aveva invaso la Germania sconfitta in un tentativo di clonazione di cui oggi abbiamo smarrito le tracce. La Repubblica Federale Tedesca non era minimamente simile all’attuale Germania unificata.

La Rft era una terra di guerra fredda, di fedeltà atlantica molto armata, era un Paese che perdeva i contatti con la tradizione linguistica tedesca che invece era curata e coltivata nella Repubblica Democratica Tedesca, cosa di cui ti accorgevi quando in metropolitana attraversavi Berlino da Ovest ad Est ed entravi in una Prussia tradizionalista, dai grandi baffuti a manubrio e le uniformi antiche che marciavano al passo dell’oca come ai tempi di Hindenburg. Le Germanie erano veramente due con due diverse poetiche, le vite degli altri nelle mani di una Stasi stagnante e una accettazione convinta degli slogan sovietici. Hans Magnus era uno dei tanti apolidi in patria, come Gunter Grass e Bertold Brecht e tanti altri intellettuali come Herbert Marcuse e come loro e insieme a loro scatenò la grande offensiva intellettuale nata con la Scuola di Francoforte e con l’Adorno dei “Minima Moralia”, un testo abbondantemente purgato anche in Italia da un’editoria poco incline allo scandalo in casa.

Enzensberger però aveva una marcia in più: sapeva resistere al fallimento delle sue stesse ideologie attraverso la commistione, il rifiuto fecondo e la libertà di ritrarsi. In un’epoca in cui gli intellettuali non erano molto inclini a sopportare le disfatte della memoria e della prova storica. Lui sì: odiava il consumismo e alla fine non lo amò ma si depurò dall’ostentazione antiamericana. Amò ogni tentativo rivoluzionario e si dette anima e corpo alla grande rivoluzione culturale del 1968 gettandosi con ardore e sarcasmo in una guerra collettiva contro l’autoritarismo occidentale che però non poteva non investire con le stesse armi del disprezzo e della libertà anche l’autoritarismo del mondo sovietico. Ricordo sempre un giorno di quell’anno fatato in cui, nella redazione spoglia de l’Avanti di cui ero redattore, tutte le telescriventi mitragliavano notizie di manifestazioni che si svolgevano contemperamenti nella Parigi gollista, nella Spagna franchista, nella Praga comunista, a Berlino in entrambe le parti del muro, a Berkley California e naturalmente a Milano, Roma e persino nella Lisbona salazariana.

Le polizie erano impotenti, ma anche le rivoluzioni erano impotenti, eravamo su tutte le barricate e un vento di insofferenza e di delirio soffiava da tutti punti cardinali senza poter far altro che far fremere l’albero del potere e mettere alla gogna i governi e tutti i loro fantocci. Che cosa è rimasto di quella memoria? Nulla. L’invasione dell’agosto a Praga, le bastonature di tutte le polizie. Una manciata di morti, una manciata di versi, una manciata di ricordi che non reggono l’astio e la noncuranza del tempo, tutto è svanito come la sabbia su cui l’onda cancella i passi degli amanti che la vita e la rivoluzione separa, come nelle foglie morte di Prévert. Ed ora è chiusa anche la partita di questo amabile e presuntuoso testimone dell’umanità in rivolta ma anche onesto e sarcastico combattente quasi ormai ignoto, che è stato Hans Magnus Enzensberger, che ricordavamo come un maturo giovanotto splendente sulle barricate delle parole.

Fra le sue frasi celebri segnalo questa: “Le arti non sono concepite come attività storicamente invariabili del genere umano e neppure come un arsenale di “beni culturali” che vivono un’esistenza senza tempo, ma piuttosto come un processo che avanza senza sosta, come work in progress di cui ogni opera è partecipe”. Hans Magnus è stato un eroe di questa visione dell’arte così diacronica e così permanente al tempo stesso. È stato un combattente di tutte le barricate di una sinistra ancora in cerca di se stessa e adorava gli anarchici baschi di cui diceva che avevano un solo limite: non riuscivano a vedere più in là dell’ultima barricata perdendo di vista sia il presente che il futuro.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.