«Noi non abbiamo, ma siamo un corpo» (A. Sofri, Altri hotel, 2002, 148). E dal corpo non si scappa, se chiede di vivere una relazione sessuale consensuale con il partner. L’ordinamento penitenziario, silente in materia, è applicato come se ne prevedesse il divieto. L’architrave di tale proibizione è nel principio di sorveglianza continua sulla persona detenuta, tradotto nella regola inderogabile del suo controllo visivo durante i colloqui e le visite dei familiari (art. 18, 2° comma). Dall’impossibilità di sottrarsi a questo panopticon deriva tutto il resto. I corpi reclusi sono inesorabilmente esposti a uno sguardo che li accompagna ovunque, anche durante le azioni fisiologicamente più intime (le porte dei bagni, in carcere, non hanno chiave). È uno sguardo che non conosce intervalli.

Come non funziona la vita sessuale in carcere

E poiché c’è erotismo solo se un corpo è celato agli occhi dell’altro e non quando quel corpo è visto ossessivamente (M. Recalcati, I tabù del mondo, 2017, 94), la vita sessuale in carcere non può che ricalcare le forme ripetitive della pornografia o dell’atto osceno. Sono le modalità del sesso immaginato e solitario, per quanto possa esserlo in celle sovraffollate oltremisura. O della relazione omosessuale che, quale scelta obbligata di adattamento alla vita carceraria, non ha nulla della fraternità amorosa tra detenuti di cui parlava Pasolini (Scritti corsari, 1975, 197 ss.). Priva di alternative, assume tutt’altro significato: «Una volta, mentre andavo alle docce, ho visto due uomini fare l’amore. Decisi che quella doccia non era poi così indispensabile e me ne tornai da dov’ero venuto. Per non disturbare nessuno. Nemmeno i secondini che a turno si godevano lo spettacolo. Pensai a lungo a quello che avevo visto. Non era amore, non era sesso, forse era qualcos’altro. Mi era sembrata più una forma di sopravvivenza» (S. Bonvissuto, Dentro, 2012, 43-44).

Una primitiva pena corporale

L’effetto inibitorio del controllo a vista stravolge anche il senso della pena. Ne muta, innanzitutto, la natura: estirpando la sessualità del detenuto, diventa una primitiva pena corporale. Non ne siete persuasi? Provate, allora, a immedesimarvi in chi – per anni, decenni, talvolta per sempre – non può più rivivere l’esperienza del contatto fisico con la persona desiderata, mentre lo scorrere del tempo ne sbiadisce anche la memoria sensoriale, fino a cancellarla. Provateci, se ne siete capaci. Cambia anche la finalità della pena, trasformata in un’obbligazione penitenziale: un’emenda moralistica, dove non c’è spazio per una sessualità ridotta a mero vizio e peccato da cui purificarsi. L’effetto collaterale è quello di una desertificazione affettiva che corrode, il più delle volte, anche i legami di coppia più saldi. Vale soprattutto per l’ergastolano senza scampo, ristretto a vita: per lui, e per la sua con-sorte (nomen omen), «la castrazione affettiva e sessuale è sancita in modo defi – nitivo e senza appello» (N. Valentino, L’ergastolo, 2009, 44).

Ingiustificato il controllo visivo sui colloqui

Questa condanna accessoria a un’ingiustificata solitudine, privando il detenuto della relazione più preziosa, può spianare la strada all’agìto autolesionistico e suicidario che sono «la voce del corpo quando il trauma spegne la parola» (V. Lingiardi, Corpo, umano, 2024, 12). Eppure, il diritto all’intimità inframuraria non è incompatibile con la condizione detentiva. Lo attesta l’esperienza di tanti altri paesi. Lo riconosce la Costituzione, secondo cui la carcerazione priva della sola libertà personale e giustifica ulteriori restrizioni soltanto se inestricabilmente correlate allo stato detentivo. Non altro, né nulla di più. Altrimenti – insegna la Consulta – «la limitazione acquisterebbe unicamente un valore affl ittivo supplementare» illegittimo (sent. n. 153/2013). Ecco perché il libero esercizio della propria sessualità dovrebbe risultare invulnerabile alla sanzione giuridica. C’è voluta la sentenza costituzionale n. 10/2024 per decretarlo, una volta per tutte: in assenza di ragioni di sicurezza o giudiziarie, è ingiustificato il controllo visivo sui colloqui in carcere tra il detenuto e il partner che, quindi, dovranno svolgersi in appositi spazi riservati. Dopo un anno, il giudicato costituzionale non abita ancora negli istituti di pena.

Tamquam non esset. La latitanza del legislatore si è saldata con l’inerzia colpevole dell’amministrazione penitenziaria. Nell’attesa strumentale degli esiti di un’istruttoria senza fine affidata a un «gruppo di studio» messo in piedi dal DAP, tutto è come prima. Tocca allora al giudice di sorveglianza, «disapplicata sul punto ogni eventuale disposizione amministrativa confliggente», disporre che sia consentito il colloquio intimo cui il detenuto ricorrente ha diritto (ord. 29 gennaio-4 febbraio 2025, n. 149, Magistrato di sorveglianza di Spoleto). Al suo godimento non si oppone solo uno spirito pubblico vendicativo, contrario all’idea stessa che cose del genere si possano fare in luoghi del genere, perché dentro si deve stare peggio che fuori: altrimenti che galera sarebbe? Il muro contro cui quel diritto rimbalza è di gomma speciale. Il sacrificio della sessualità, infatti, consente di padroneggiare il corpo ristretto e di signoreggiare su chi lo abita: è a questo bio-potere che il potere fatica a rinunciare. Da sempre, il corpo (della donna, del folle, del malato, del migrante, del detenuto) è territorio politico decisivo. Fondamentale, allora, è riuscire a dare un seguito coerente e concreto alla sent. n. 10/2024.

Andrea Pugiotto – Professore Ordinario di Diritto costituzionale

Andrea Pugiotto

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