Decidiamo di parlare ancora una volta di carcere, nelle stesse ore nelle quali viene rilanciato, sui principali organi di stampa, un nuovo allarme sicurezza nelle nostre strutture detentive. Ad innescarlo, una indagine della Procura di Palermo, dalla quale emergerebbe tra l’altro – secondo le cronache – che la criminalità organizzata governa indisturbata le carceri, e dalle carceri continua a governare i propri affari illeciti nei territori da essa controllati. Lo strumento del diavolo sembrerebbe essere quello dei telefoni cellulari, che entrano indisturbati nelle celle, consentendo ai detenuti in grado di procurarseli -capibastone in testa – di continuare ad operare all’esterno, guadagnando forza e prestigio criminale all’interno. Indagine certamente importante, che dovrà accertare le falle e le responsabilità all’interno del sistema carceri, in modo da restituire agli istituti penitenziari una delle sue funzioni irrinunciabili, che è certamente quella di isolare e sterilizzare la pericolosità sociale del detenuto. Non vorremmo però che questa indagine divenisse la ghiotta occasione per rilanciare richieste indiscriminate di irrigidimento complessivo delle regole di vita nel carcere, che finiscano per colpire le condizioni – già assai precarie, e spesso ben oltre i limiti della decenza – nelle quali vive quotidianamente la gran parte dei detenuti, che in realtà nulla ha a che fare con la criminalità organizzata.

L’intervento

Una cosa è intervenire sulla tenuta e sulla impermeabilità delle sezioni di alta sicurezza, altra cosa è cogliere l’occasione per pericolosi rilanci securitari nella ordinaria vita nelle carceri. In una intervista sul Corriere della Sera, per esempio, il dott. Sebastiano Ardita sembra andare esattamente in questa direzione, se arriva ad imputare, secondo una logica che a me appare del tutto misteriosa, il numero impressionante dei suicidi non alle condizioni infami della ordinaria vita nelle carceri, ma invece allo strapotere che in esse eserciterebbero le mafie («Con il pretesto del sovraffollamento delle carceri si è deciso di aprire le celle ai mafiosi, il che consente ai più pericolosi di circolare ed assumere il controllo dei penitenziari, provocando peraltro la mattanza dei diritti dei reclusi più deboli. Lo attesta l’impennata di reati, atti di autolesionismo e suicidi: un cedimento alla sicurezza e al benessere con l’alibi della tutela dei diritti dei detenuti»).

Il fenomeno dei suicidi

Si tratta di una lettura davvero stupefacente del fenomeno drammatico dei suicidi o tentati suicidi nelle carceri, segnata da una specie di ossessione mafiocentrica, che fa del tema -pur molto serio – del contrasto alla criminalità organizzata una sorta di unità di misura universale sulla quale organizzare e misurare qualunque pensiero o ragionamento che abbia a che fare con i temi della amministrazione della giustizia. Noi invece pensiamo che il sovraffollamento non sia un “pretesto”, che la tutela dei diritti dei detenuti non sia un “alibi”, e soprattutto che la vergogna dei suicidi non abbia proprio nulla a che fare con il -preteso o reale che sia – spadroneggiare delle mafie nelle carceri.

E quindi questa settimana siamo qui a raccontarvi, anzi a farci raccontare da chi quelle realtà le vive – a vario titolo – quotidianamente, quale inferno sia la vita nelle nostre carceri, e quanto lontano sia quello standard minimo di rispetto della dignità umana il cui rispetto dovrebbe costituire la prioritaria responsabilità di chi governa il Paese. Le indagini facciano il loro corso, il livello di sicurezza e di compressione della pericolosità sociale dei detenuti per reati di criminalità organizzata sia verificato e recuperato alla sua necessaria efficienza: ma non diventi tutto ciò un pretesto per abbandonare il 90% (e forse più) della popolazione carceraria al proprio destino infernale, che oggi PQM vuole testimoniare. Buona lettura!

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