Nel 1992 apparve un aureo libretto di Bifo (Franco Berardi), che per immaginazione sociologica e capacità di lettura del presente metterei accanto ai saggi di Bauman, Sennett, etc. (benché più “militante”): Come si cura il nazi ora riproposto dall’editore Tlon, con una bella prefazione di Luca Cirese e una postfazione dell’autore. La diagnosi è classicamente marxiana (Grundrisse): il capitale ha sviluppato una potenza produttiva e tecnologica straordinaria, che però non mette al servizio dell’umanità, o solo quanto basta per ricavare il suo profitto. Premessa generale è l’idea che il fine dell’uomo è potenziare l’intelletto sovraindividuale, la intelligenza collettiva ai fini della propria liberazione (Aristotele riletto da Averroè). Bifo è forse il frutto migliore della fervida stagione dell’operaismo: ne conserva l’audacia teorica senza certa ferrigna pesantezza. Ripassiamo a grandi linee l’analisi contenuta nel libello, dove fa interagire Marx con Deleuze e Lenin con Tristan Tzara.

Perlopiù il valore della merce, nella economia immateriale (fatta di beni immateriali) non è più dato dal lavoro in essa contenuto ma dall’immaginario: principale forza produttiva è l’intelligenza, la capacità di relazioni, il linguaggio, l’assistenza. Il che schiude prospettive inedite di emancipazione. Oggi si fronteggiano due soggetti: la mondializzazione, fredda e impersonale, che implica sradicamento, e il bisogno spesso paranoico di identità locale, tribale, di radici salde anche se magari inventate. Un po’ lo schema del sociologo Benjamin Barber in un saggio uscito da noi nel 2002: globalismo vs tribalismo, McMondo vs Jihad, tra loro segretamente e involontariamente complici, dunque entrambi da rigettare. Anche se personalmente non sono perfettamente equidistante: il McMondo, per quanto orribile, contiene pur sempre alcuni anticorpi. Come peraltro sa Bifo l’illuminismo finisce in idolatria e la modernità occidentale sarà pure andata a male, tuttavia implica da sempre la critica della modernità stessa, da Baudelaire e Nietzsche fino a Marcuse. Proprio Marx apprezzava questo aspetto dirompente della modernità, che ingarbuglia ogni appartenenza e identità. Né sono del tutto convinto che il consumismo sia uguale al gulag: la pubblicità ti inganna e ti seduce, ma non ti controlla interamente.

È però indubitabile che il nazismo attuale si genera dal terrore “malato” della contaminazione e del contatto, e dalla ricerca di certezze populiste e identitarie. Ora, prima di arrivare alla pars costruens, davvero innovativa (su come interferire con la costruzione dell’immaginario), vorrei esprimere un dubbio su un solo aspetto. Dopo pagine e pagine in cui leggiamo una apologia dello spaesamento e dello sconfinamento, una gaia scienza del nomadismo, del transito e dell’erranza, viene umanamente voglia di stabilire ogni tanto dei confini, benché provvisori, di essere anche un po’ stanziali. Simone Weil nel suo elenco dei “bisogni dell’anima” – nell’Enracinement (1943) – metteva accanto al bisogno di giustizia, di libertà, di verità, di uguaglianza, etc, anche quello di gerarchia, di sicurezza, di ordine, di obbedienza, e infine di radicamento. Insomma se intendiamo trovare un nuovo fondamento della convivenza sociale dobbiamo allora disporre di un orizzonte antropologico sufficientemente ampio. Il punto è dare risposte mature a questo insieme di bisogni: ogni radicamento dovrebbe essere ogni volta scelto consapevolmente dagli individui e non coincidere con una mitica origine, o peggio con sangue e suolo.

Lo stesso Bifo poi mostra un piccolo cedimento identitario quando non può fare a meno di richiamarsi alla centralità del “comunismo”, anche se definito però elegantemente come “assenza”, come “indicibile” (una teologia negativa lievemente estetizzante). Sempre Weil lamentava che non esistono atei ma idolatri. Difficile non esserlo per niente. Là dove queste pagine ritrovano tutta la loro verità è quando si impegnano a definire in cosa consista la cura del nazi, e – intendo sottolinearlo – si tratta di un nazi dentro e fuori di noi. Dato che il nazismo di ieri e quello di oggi (appena più depresso) nasce da un irrigidimento, dalla ossessione della purezza (e del capro espiatorio), dall’ipernazionalismo, dalla paranoia identitaria, e infine dalla “pretesa di dominare il corso storico e naturale degli eventi” – mentre sappiamo che la realtà è impura, e inoltre mutevole ma immodificabile, ingovernabile – bisogna allora ripensare la politica stessa, oggi tanto più impotente quanto più parla di strategie e progetti. Bifo propone di agire molecolarmente, dentro “microsituazioni comunitarie”, di ridicolizzare ovunque il culto economicistico, la identificazione tra ricchezza e consumo, di insegnare (e imparare) a sorridere, di sottrarsi alla competizione, di perdere il controllo (il quale è sempre una illusione), oltre – beninteso – la proposta di una riduzione generale dell’orario di lavoro (che permetterebbe a ciascuno una maggior cura di sé).

Ora, affinché questo appello non finisca in una nobile retorica, in un messaggio gentile, vagamente zen, bello ma anche un po’ fumoso – “disponibilità alla deriva”, abbandonarsi alle correnti, disperdere il sé … – il lettore è chiamato a tradurlo nella propria esistenza. Insomma il libro di Bifo va completato e direi collaudato dentro la esperienza quotidiana, anche immaginando sperimentazioni personali, esempi tangibili e sorridenti di “ben fare”, terapie contagiose e irradianti (sapendo inoltre che un naziskin è spesso meno coerente del suo stereotipo). Provo a fare solo un paio di esempi. Ciascuno dovrebbe – nel suo ambito professionale – rinunciare al potere di cui si trova anche casualmente a disporre (come medico, come docente, come leader politico, come giornalista…). In tal modo “togliere alla relazione sociale il suo carattere violento”, decostruire logiche di dominio entro il proprio ruolo sociale. E ancora: dovrebbe dimostrare non retoricamente ma con il proprio concreto stile di vita che limitarsi alle cose essenziali è più interessante e piacevole della ricerca del successo.