L'operazione in Medio Oriente
Con le forze italiane a Erbil, dalla lotta all’Isis all’addestramento dei Peshmerga: “Siamo una potenza gentile”
Dalla lotta all’Isis all’addestramento dei Peshmerga, l’operazione Prima Parthica è centrale per il Kurdistan iracheno. Una faglia geopolitica in cui si avverte il grande terremoto tra Iran e Israele

Dieci anni fa, a Mosul veniva proclamato il Califfato. Le bandiere nere dello Stato islamico sommergevano l’Iraq e la Siria con i loro pickup, i loro mitra e il loro fiume di rabbia. E non lontano dall’epicentro dell’Isis, il Kurdistan iracheno iniziava una guerra di resistenza per fermare l’avanzata degli uomini del Califfo. Una furia che appariva inarrestabile, tra cristiani costretti a fuggire, yazidi uccisi e donne schiavizzate, che i combattenti curdi, i peshmerga, hanno saputo frenare con il sangue. Aiutati da quella Coalizione internazionale che ancora oggi, dalla base di Erbil, non solo monitora che l’Isis non risorga, ma sostiene anche la trasformazione dei peshmerga in un esercito con tutti i crismi.
Una forza pienamente integrata all’interno dell’Iraq, e che rappresenta però anche la spina dorsale di un Kurdistan in cerca di rinascita. Fiero, proiettato al futuro, ma anche consapevole dei suoi limiti. Dove oggi il lavoro dei militari occidentali, e in particolare di quelli italiani, è cambiato ma ancora fortemente richiesto dalle autorità locali. L’Isis, almeno militarmente, è stato sconfitto: ridotto a piccole sacche e a cellule dormienti. Sorvolando in elicottero la diga di Mosul e il monastero di San Matteo eremita, incastonati tra campi, montagne brulle e un Tigri che racconta pagine indimenticabili della storia umana, il Califfato sembra un ricordo sbiadito.
Qualche anno fa, i miliziani di Abu Bakr al-Baghdadi erano riusciti ad arrivare a quattro chilometri dal santuario, pronti a conquistare l’altura e a saccheggiare uno dei simboli del cristianesimo iracheno. Oggi i pellegrini sono tornati a pregare nel santuario e si vedono le loro macchine zigzagare sulle pendici del monte. La diga di Mosul, al limite estremo della regione curda, è operativa dopo che il Califfato aveva rischiato di distruggerla, per mancanza di manutenzione ma anche come minaccia finale verso l’Iraq. Pronto a inondarlo nella disperazione.
Segni di una realtà nuova come quella che sogna Erbil, dove al fianco dell’antica cittadella e delle vecchie periferie povere, spuntano come funghi quartieri nuovi di zecca, futuristici, con grattacieli che si illuminano di notte e spesso completamente vuoti. Ma il sedicente Stato islamico non è un’ideologia morta, dice il ministro dell’Interno del Kurdistan, Reber Ahmed. Tra terroristi in carcere, assenza di prospettive per molti giovani e mancanza di controllo di alcune strisce di terra, il Daesh è dormiente, ridotto a pochi nuclei, ma in grado di attirare ancora ragazzi in cerca di qualcosa a cui votarsi.
Il governo curdo lo sa. Ed è anche per questo che la Coalizione internazionale resta a Erbil. Una garanzia per la regione e per tutto l’Iraq, in cui l’Italia, con l’operazione Prima Parthica, ha un ruolo fondamentale. Peshmerga e Zeravani, le due principali forze locali, sono accompagnati passo dopo passo dalle truppe italiane. E la stessa cosa accade a Baghdad con le guardie di sicurezza irachene. Dai tiratori scelti alle unità impegnate nel controllo della folla, dai reparti specializzati nel neutralizzare gli esplosivi improvvisati fino al combattimento in montagna, gli italiani contribuiscono a un piccolo miracolo: trasformare una milizia agguerrita in un esercito moderno.
Una forza regolare e locale a sua volta inserita in un Paese più grande, l’Iraq, che non vive solo le conseguenze dell’Isis, ma anche l’essere uno dei fronti della guerra-ombra tra Iran e Israele. Una faglia bollente. Crocevia di interessi diversi in cui i 300 italiani di Erbil – comandati dal colonnello dell’Esercito, Francesco Serafini – insieme alle altre centinaia di colleghi presenti tra Iraq e Kuwait, rappresentano l’Italia ma anche un Occidente che appare sempre meno decisivo.
Dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, le tensioni in Iraq sono aumentate. E gli echi del conflitto si sono avvertiti anche in Kurdistan, dove il ministro della Difesa Shoresh Ismail Abdulla ripete che “col sangue non si ottiene nulla”. A gennaio, l’Iran ha rivendicato di avere colpito una presunta base del Mossad nei pressi di Erbil. Versione completamente smentita dalle autorità locali, secondo cui a essere ucciso è stato solo un imprenditore locale. E nel resto del Paese, le milizie sciite legate a Teheran strappano continuamente posizioni di potere, premendo sul governo di Mohammed Shia’ Al Sudani affinché le truppe statunitensi se ne vadano. Il Pentagono ha avviato con gli iracheni un primo tavolo di discussioni per procedere a una graduale diminuzione delle truppe.
Ma al momento, Washington non sembra volere accelerare, preoccupata dal possibile ritorno dell’Isis, dalla minaccia iraniana, ma anche dai sommovimenti geopolitici in corso nella regione. A non volerlo è anche il governo curdo di Nechirvan Barzani, che sa cosa significa avere al proprio fianco la Coalizione internazionale. La regione è circondata da fattori di instabilità. A est, c’è l’Iran, di cui si riesce a percepire il respiro. A nord, la Turchia, che blinda i rapporti con il Kurdistan iracheno e colpisce il Pkk infiltrato in questa terra. Elementi considerati dallo stesso ministro Ahmed “un problema” che “fa più male che bene” ai curdi d’Iraq.
A ovest, il buco nero siriano è ancora un enorme punto interrogativo. Cina e Russia premono su Baghdad per inserirsi nelle trame di un Paese fragile e diviso. Un vero e proprio rompicapo strategico. Dove interessi etnici, nazionali, economici e internazionali si intrecciano in una rete in cui l’Italia, soprattutto in questi ultimi anni, ha assunto un ruolo di primo piano e su più fronti. Lo ha spiegato anche il console a Erbil, Michele Camerota, che presentando gli 11 progetti delle università italiane coinvolte negli scavi archeologici dell’antica Mesopotamia, ha ribadito che anche un piano di questo tipo può essere centrale per la strategia di Roma nel mondo.
“L’Italia è una potenza gentile”, dice con orgoglio Camerota, “che vuol dire promuovere la diplomazia culturale italiana”. Una scelta che non ha solo a che fare con lo studio di una delle culle della civiltà, ma anche con il rafforzamento dei rapporti con la regione e con tutto l’Iraq. È un lavoro parallelo a quello dei militari, in uno dei crocevia del Medio Oriente e pieno di contraddizioni. Dai profumi del bazar di Erbil fino alle sue periferie povere, dall’aeroporto militarizzato ai nuovi quartieri da sogno, e più in là dalle montagne alle rive del Tigri, il Kurdistan sfida sé stesso per diventare una realtà politica sempre più rilevante. Ma è anche un termometro geopolitico.
Gli interessi delle piccole, medie e grandi potenze passano anche per queste terre martoriate e orgogliose. Terra di un popolo che ha saputo soffrire, ma che dimostra anche pragmatismo e voglia di futuro. Le forze armate italiane sono in prima linea in questo lembo di terra. In un’area incastonata tra potenze che si sfidano tra di loro per una regione che è ancora oggi, dopo migliaia di anni, il centro dei destini del mondo.
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