È uscito un libro meraviglioso e inesauribile, Concupiscenza libraria di Giorgio Manganelli (Adelphi, a cura di S. S. Nigro), che raccoglie in modo sistematico, divise in sezioni tematiche (anche non del tutto omogenee tra loro: Il Barocco, Tutti i colori de giallo, Macchinazioni fantastiche, Errabondi e viaggiatori, anche sedentari…) tutte le recensioni dell’autore (seguirà un secondo volume). Del libro in sé si può dire pochissimo, per la ragione che è impossibile recensirlo: si compone infatti di oltre 150 straordinarie recensioni dell’intera letteratura occidentale di tutti i tempi, per dire: da Omero e Ovidio a Cavazzoni e Cerami.

Mi limito a osservare che celebra sontuosamene la recensione – «gesto miserabile, irresponsabile, ritaglio di chiacchera, gomitolo di inutili aggettivi, di rivoli avverbi, di inutli sentenze» – come genere letterario di prim’ordine (né servile né parassitario, e qui il modello sono le “cronache letterarie” di Edmund Wilson), e che parlando dei libri degli altri costruisce una propria narrazione, visionaria, erratica, avvincente: ci propone una intrigante, mai conclusa avventura conoscitiva, che cattura il lettore attraverso uno stile immaginativo e di ossessiva precisione (nella postfazione Nigro si sofferma, utilmente, sulla evoluzione di questo stile: da una «cordiale semplicità» a «qualche voluta e spigliata ricercatezza»).

Ogni singolo articolo di Manganelli è una festa della lingua, una avventura nel nostro idioma, un atlante del lessico, un arsenale di figure retoriche: si pensi solo a certi accostamenti verbali, come la «invenzione squisita e tromentosa» in un racconto di fantascienza o la «sgarbata indulenza» di Benedetto Croce verso se stesso o la dottrina “meticolosa e sfrenata” di Mario Praz. Ma se dovessi fare un esempio solo dello stile inarrivabile e ossimorico del Manganelli recensore, citerei un brano su Anna Maria Ortese, elogiata per l’Iguana dopo averne deriso le opere neorealiste, di un «sentimentalismo staliniano»: nessuno ha insegnato alla scrittrice «questa callida acredine del discorrere, quella volatile furia e insieme quella macerazione labirintica che danno, fin dalle prime pagine, letizia aspra, inquieta, insonne e insieme allucinatoria».

Ma, ripeto ogni prelievo sarebbe arbitario. Mi limito solo a un parallelo con Pasolini: eterni nemici, tra loro inconciliabili, ma forse – come vorrei suggerire – segretamente affini, e non solo perché entrambi danno forse il meglio di sé nelle recensioni. Provo a spiegarmi. Da una parte Manganelli non sopporta il patetismo pasoliniano, così fatuo da sembragli una burla, non sopporta la sua «stizzosa bontà» e i suoi romanzi «in similvita» (e qui il piglio stroncatorio contiene pure un elemento di verità decadente presente nei romanzi “romani”), e precisa, in un’altra occasione, che «non c’è niente di più orribile dell’innocenza».

Dall’altra, per Pasolini Manganelli è un teppista in pantofole, un letterato sigillato nel suo universo cartaceo e nella sua ironia difensiva, e anzi che adopera l’ironia per censurare ogni eccesso emotivo. E, anche se nella scrittura di Manganelli si intravedono passioni roventi, potenzialmente distruttive, appena dissimulate, non ha tutti i torti. Ad esempio parlando di un libro sui campi di sterminio Manganelli scrive che «è uno degli argomenti più irritanti del nosto secolo veramente sgradevole». La Shoah «irritante»? Capisco le ragioni stilistiche di questo aggettivo, l’understatement, l’apparente sminuire che tradisce l’imbarazzo d parlare di un evento innominabile (qualsiasi altro aggettivo gli sarebbe suonato retorico), eppure non riesco a mandarlo giù.

Ora, non vorrei sembrare impertinente, ma in queste pagine recensorie Manganelli smentisce involontariamente la sua famigerata, paradossale teoria della letteratura come menzogna. Va bene, la parola letteraria è una «menzogna», qualcosa di inaffidabile e disturbante, di scandaloso, di degradante (come qui dice a proposito di Campanile) e perfino di losco, ma solo perché smaschera la “verità” affidabilmente ovvia, troppo educata, convenzionale, falsamente edificante, rassicurante, della lingua della comunicazione ordinaria. Chissà che lui e Pasolini non dicessero la stessa cosa, solo con diversa terminologia? La “realtà”, che Manganelli aborriva, è la stessa cosa della “irrealtà” – fatta di automatismi, cliché e rimozioni – che Pasolini ha combattuto con tutta la sua multiforme opera.