Il prezzo alto del populismo
Il conto di Conte: Superbonus, quota 100 e reddito di cittadinanza hanno ampliato le disuguaglianze a caro prezzo
Il debito pubblico italiano è attorno ai 2900 miliardi di euro, quasi il 134% del Pil. Nel rapporto debito/Pil Europa siamo secondi solo alla Grecia, eppure tiriamo dritti: il deficit 2023 è esploso ed è passato dal 5,3% della Nadef al 7,2% a consuntivo. Non solo i conti non tornano ma sembrano totalmente fuori controllo a causa del Superbonus. Prima ancora di valutare se le misure che hanno generato lo sforamento sono debito “buono” o debito “cattivo” ricordiamoci che l’entità dello stock del nostro debito è sempre meno gestibile. Questo secondo aspetto dovrebbe assicurare maggiore consapevolezza e responsabilità di chi dovrebbe occuparsene e invece ci accorgiamo che “e allora il Giappone” non è più monopolio esclusivo dei terrapiattisti dei social bensì ma vulgata di politici insospettabili.
Ogni anno di soli interessi sul debito dobbiamo pagare circa 100 miliardi di euro. Eppure siamo in trionfo per lo 0,7% di Pil nonostante la spinta del Pnrr e la bolla negli investimenti residenziali e i il livello dei consumi. L’analfabetismo funzionale degli istruiti è un vero dramma e continua a far pensare che se servono più soldi è sufficiente stamparli e che è “colpa dell’Europa e della Bce se non possiamo più stamparli all’occorrenza”. Questo è l’incipit di ogni narrazione populista su cui è stato costruito il Welfare Elettorale e si sono accresciute le disuguaglianze. Veronica De Romanis nel suo ultimo libro “Il pasto gratis” ci ricorda il vizio bipartisan di raccontare e utilizzare la spesa pubblica come se fosse senza costi. Bisognerebbe poter aprire il confronto partendo da dati comuni: quanto è costata una scelta, quale è stato l’impatto in termini di costi e di avvicinamento agli obiettivi prefissati.
Negli ultimi anni sono state 3 misure che non solo sono state indicate come “gratuite” ma che addirittura “si sarebbero ripagate da sole” mitigando le disuguaglianze. Perché è vero, un Paese che si occupa di generare e distribuire la ricchezza, cresce davvero. La realtà è che alcune di queste misure, non solo sono state innocue nella lotta alle disuguaglianze ma in molti casi le hanno ampliate (e a caro prezzo). Il Superbonus mediamente ha spostato ricchezza da chi è povero verso chi è più ricco. Sul Superbonus, ci mancava solo una Ragioneria dello Stato che sbaglia i conti di 40 miliardi. Per recuperare oggettività, usiamo le parole dell’indagine conoscitiva della commissione Bilancio del Camera: non si può che riconoscerne il costo spropositato, gli effetti perversi e l’insostenibilità per le finanze pubbliche, che mortificano qualunque beneficio (in termini di crescita economica e occupazionale o di riduzione di consumi ed emissioni). In compenso i prezzi sono triplicati senza aumentare la qualità del lavoro e della sicurezza. Sono del settore edile il 36% dei morti sul lavoro dall’inizio dell’anno. Uno ogni due giorni. La spesa per il Superbonus è quantificata in 140 miliardi (170 miliardi con il Bonus facciate). Più di un terzo sono andati ad abitazioni unifamiliari. Sulle periferie il Pnrr prevede 3 miliardi di interventi.
Quota 100 fu accompagnata da altrettante bufale. La promessa di creare occupazione (che avrebbe ripagato la misura) ricordate, “ogni 1 nuovo pensionamento, verranno assunti 3 giovani” e la possibilità per chi aveva fatto lavori gravosi di andare finalmente in pensione. Non solo il rapporto fu meno di un’assunzione ogni 3 pensionati. In molte aziende i 3 pensionati non sono stati compensati con nessuna assunzione per, come dissero, “efficientare”. Fu smentita la retorica secondo cui sarebbero andati in pensione i lavoratori provenienti da lavori gravosi e usuranti. La misura fu utilizzata in maggior misura da pubblico impego, credito e servizi più in generale. Della misura hanno beneficiato a fine 2021, 379.860 persone per un costo di 23 miliardi. Meno persone del previsto perché in molti casi ci si è accorti che la decurtazione dell’importo della pensione era significativo.
Il Reddito di cittadinanza fu introdotto gettando alle ortiche il Rei (Reddito di inclusione) che purtroppo, senza risorse, era stato costruito dall’alleanza contro la povertà con maggiore attenzione ai problemi da risolvere. Si annunciò l’“abolizione della povertà” che in realtà continuava ad aumentare. Lo strumento lasciava fuori dalla sua copertura il 47% dei poveri (dati rapporto Caritas), non prevedeva politiche attive del lavoro vere e di limitazione degli abusi. Per questo andava modificato e non abolito. Il Governo Meloni ha utilizzato la retorica di destra, altrettanto populista, per abolire lo strumento con le stesse banalizzazioni di chi voleva abolire la povertà per decreto. È sostanzialmente vietato essere occupabili e non lavorare, ma tutt’ora non vediamo strumenti di politiche attive del lavoro, a partire dalla formazione obbligatoria. È costato circa 30 miliardi. L’attuale Governo non ha costruito uno strumento alternativo di lotta alla povertà. Al netto dell’evasione fiscale e del lavoro nero, la povertà secondo l’Istat è stabilmente alta nonostante la crescita della base occupazionale. Sempre secondo la Caritas, 1 su 4 di chi si rivolge agli sportelli Caritas ha un lavoro. Se la politica è diventata l’ambito più lontano dalla linearità e dalla coerenza, va detto, è anche perché questa virtù, in un paese smemorato, non è un disvalore ed elettoralmente funziona. Perché chi sale in tribuna per diritti e doveri, sui secondi porge la mano (e il voto) a chi gli offre una deroga o uno sconto.
Ma anche perché abbiamo troppi giornalisti che si limitano a passare il microfono e a schiacciare il bottone degli applausi automatici di fronte al demagogo di turno. In un paese che non a caso spende oltre 130 miliardi per il gioco d’azzardo, più della spesa sanitaria. Come in The social dilemma: “Se il servizio è gratis, il prodotto sei tu”. E in politica il prodotto è il nostro consenso, il nostro voto, pagato con il futuro delle nuove generazioni, con la cristallizzazione delle disuguaglianze e delle opportunità. Quando si buttano soldi per consolidare un Paese che non cresce, meno equo e meno giusto, si ha il dovere di riconoscerlo e di rivedere i provvedimenti. Il nostro debito non è il prezzo di un modello sociale più giusto, è il risultato di una stratificazione di interessi consolidati nello scambio politico, lontano da chi ha bisogno e dai veri investimenti. Bisognerebbe smetterla di puntare sull’ignoranza, unico terreno in cui si può confondere Robin Hood con lo Sceriffo di Nottingham. La destra con la sinistra. Le corporazioni con i più bisognosi. La rendita parassitaria con il lavoro.
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