Una lunga storia di errori, bugie e scandali che hanno trasformato la gloriosa Credit Suisse, secondo istituto di credito svizzero dopo la Ubs, nel 2007 ottavo istituto di credito al mondo per capitalizzazione, nella “Debit Suisse”, come è stata ribattezza su social e giornali.

È la caduta libera della banca fondata nel 1856 da Alfred Escher a Zurigo, precipitata nella giornata di ieri al 155° posto mondiale con una capitalizzazione intorno ai 7 miliardi di franchi svizzeri, circa 7,15 miliardi di euro, arrivando a bruciare 100 miliardi di franchi di capitalizzazione in 15 anni in cui è stata investita da numerosi scandali.

Un tonfo colossale che arriva a pochi giorni dal fallimento negli Stati Uniti della Silicon Valley Bank, il più grande istituto di credito a chiudere i battenti negli Stati Uniti dalla crisi finanziaria del 2008: ma questa volta il “rischio sistemico”, viste le dimensioni e l’interconnessione di Credit Suisse, è uno spauracchio ben più evidente che aleggia tra governi e banche.

Non è un caso se nella notte Credit Suisse ha comunicato al mercato l’intenzione di esercitare la sua opzione per prendere in prestito fino a 50 miliardi di franchi dalla Banca Centrale Svizzera. In una nota l’istituto di credito ha fatto sapere che questo servirà a rafforzare la sua liquidità e che “sosterrà le attività core e i clienti di Credit Suisse mentre la banca prende le misure necessarie per creare una struttura più semplice e concentrata sulle necessità dei suoi clienti”.

Alla base del tonfo in Borsa la decisione della Saudi National Bank, partecipata per il 37% dal fondo sovrano saudita e maggiore azionista di Credit Suisse col suo 9,88% di quote, di escludere un nuovo sostegno finanziario alla banca. Mossa che ha provocato un terremoto nelle Borse e l’aumento vertiginoso dei credit default swap per assicurare gli investimenti più rischiosi, saliti al record di mille punti, 18 volte il Cds a un anno di Ubs.

D’altra parte la Confederazione svizzera sa che la banca è “too big to fail”, troppo grande e importante per fallire: era già successo nel 2008 quando la concorrente Ubs si ritrovò profondamente coinvolta nella voragine dei mutui subprime, costringendo il Paese a sborsare 60 miliardi di franchi per tirarla fuori dalle sabbie mobili.

Come ricordavamo, l’istituto ha alle spalle 167 di storia e un numero elevato di scandali e crisi, alcuni storici: è il caso dalla compravendita di oro con la Germania nazista e i rapporti commerciali con il Reich.

Ma anche in “epoca moderna”, Credit Suisse ha fatto parlare di sé per altri scandali globali. L’inchiesta “Suisse secrets” rivela i dati di 18mila clienti, ma soprattutto costa alla banca la condanna per non aver impedito il riciclaggio di denaro da parte di una banda bulgara di trafficanti di cocaina.

La crisi vera e propria della banca inizia ufficialmente due anni, col crollo di Archegos Capital Management e Greensill Capital: il primo era un hedge fund, creato dall’imprenditore statunitense di origine coreana Bill Hwang, il cui fallimento è costato 5 miliardi di franchi alla banca svizzera; la seconda era invece una società finanziaria britannica in relazione alla quale Credit Suisse aveva lanciato 4 fondi, in cui diversi suoi clienti hanno investito circa 10 miliardi di dollari. Fallita Greensill, la banca svizzera ne ha recuperati circa 7 miliardi.

Quindi i rapporti con dittatori e organizzazioni criminali: l’istituto di credito nel 1986 ha protetto con nomi falsi i depositi del dittatore filippino Marcos e di sua moglie Imelda, venendo condannata dal Tribunale di Zurigo a restituire 500 milioni al governo di Manila. Rapporti oscuri del passato emergono anche col dittatore nigeriano Sani Abacha e addirittura con la Yakuza, la mafia giapponese di cui la Credit Suisse ha riciclato 5 miliardi di yen. Quindi le multe per aver aiutato varie società ad aggirare le sanzioni contro Sudan e Iran, e altre due per aver aiutato ad evadere miliardi di dollari/euro decine di contribuenti tedeschi e statunitensi.

Infine le disavventure dei suoi vertici. L’ex amministrato delegato Tidjane Thiam, era stato costretto a lasciare l’incarico nel marzo 2020 dopo che un’indagine rivelò che la banca aveva  assunto investigatori privati per spiare l’ex responsabile della gestione patrimoniale Iqbal Kahn, per il timore di un suo passaggio alla rivale Ubs, poi effettivamente accaduto. Quindi il presidente del CdA, l’anglo-portoghese Antonio Horta Osorio, beccato due volte a violare la quarantena in epoca di Covid, di cui una per assistere alla finale di Wimbledon, oltretutto utilizzando l’aereo aziendale, e costretto alle dimissioni.

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Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia