Il fallimento della Silicon Valley Bank ha scatenato il panico sui mercati finanziari internazionali. Ancora una volta, la crisi di una banca americana ha innescato un’ondata di sfiducia non solo sulla solidità del sistema creditizio mondiale, ma sulla stessa capacità dei governi e delle autorità di vigilanza di tenere sotto controllo i nuovi rischi sistemici dell’era finanziaria digitale. Dopo 10 anni di riforme nelle regole bancarie, il mercato si è accorto in meno di tre giorni che il pericolo per la stabilità finanziaria non viene più dagli eccessi di rischio e dalle manovre speculative delle tradizionali regine di Wall Street, come è accaduto nella crisi dei mutui e il crac di Lehman Brothers, bensì da quel complesso intreccio di interessi tra tecnologie avanzate, credito e investimenti su imprese ad alto rischio che si sta imponendo come modello di riferimento nell’industria dei servizi finanziari.

Non solo. Dalla bancarotta della Svb – sedicesima banca americana per valore dei depositi – sembra emergere soprattutto la pericolosità sistemica dell’aggressiva manovra di rialzo dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve e della Banca Centrale Europeo: il passaggio dai tassi a zero alla stretta monetaria in corso, si sta rivelando infatti insostenibile sia per l’equilibrio finanziario delle imprese indebitate (il settore hi-tech è il più esposto) sia per quello delle stesse banche commerciali che hanno fatto incetta di titoli di Stato negli anni del denaro gratis.
Non è un caso se in sole due sedute borsistiche i titoli delle banche abbiano bruciato quasi 500 miliardi di dollari di capitalizzazione, costringendo persino la Casa Bianca a intervenire a difesa dei mercati: il presidente Joe Biden ha promesso un piano di sostegno per eventuali nuove crisi bancarie, mentre la Federal Reserve sembra pronta non solo a riaprire le linee di credito straordinarie per le emergenze del settore, ma addirittura a invertire radicalmente la rotta della politica monetaria: un taglio dei tassi entro la fine dell’anno sta diventando sempre più concreto.

Ma andiamo per gradi. La prima criticità emersa da questa crisi – e per molti aspetti la più rilevante è la vulnerabilità delle banche on-line al rischio di una fuga incontrollata dei depositi, il cosiddetto Bank run. Al contrario delle crisi bancarie del decennio scorso, il collasso della Svb non è stato provocato dalle speculazioni sui derivati di credito, ma dall’assalto dei correntisti ai propri conti on-line. È ovvio che anche in questo sono errori di gestione ad aver provocato la crisi, ma il fenomeno più preoccupante è stata la velocità con cui è implosa la banca. Tra venerdì e domenica scorsa – cioè prima del commissariamento della Silicon Valley Bank – si è scatenata la corsa agli sportelli bancari del 21esimo secolo: i clienti hanno cercato di prelevare quasi 42 miliardi di dollari dai conti correnti, un quarto di tutti i depositi della banca. Ma cosa ha innescato il crollo?

Il crollo di Svb è stato in realtà preceduto da un’altra banca fallita, la Silvergate Capital. A differenza di Lehman o Bear Stearns, i disastri di Svb e Silvergate non sono stati il risultato di scommesse/prestiti concentrati su soggetti indebitati e negligentemente confezionati come crediti “investment grade”, ma piuttosto il prodotto del clima da far west che pervade ormai da tempo borse e mercati. Le corse agli sportelli bancari si verificano quando tutti i depositanti vogliono ottenere i loro soldi dalle banche allo stesso tempo, uno scenario paragonabile a un teatro in fiamme con una porta di uscita delle dimensioni della tana di un ratto. Le banche, non è un segreto, usano e fanno leva sui fondi dei depositanti per prestare e investire a rischio: se una massa imponente di depositanti volesse indietro i propri soldi nello stesso, le banche non sarebbero certamente in grado di restituirli tutti. Ma che cosa ha scatenato il panico tra i clienti di Svp? In estrema sintesi, almeno due ragioni sono già chiare a tutti: stress tecnologico, dubbi sulla solvibilità della banca e cattive pratiche di gestione dei rischi.

Dietro il disastro borsistico di Svb, un colosso bancario con 170 miliardi di depositi e un’esposizione altissima nei confronti delle start-up e delle aziende tecnologiche, con particolare attenzione alle start-up delle scienze della vita. Su questi “unicorni” – considerati finora come gli artefici dei miracoli tecnologici dell’era digitale, è in corso ormai da tempo un crescente scetticismo degli investitori, tra l’altro ben evidenziato anche dal crollo delle criptovalute. Ma il vero catalizzatore delle paure dei mercati sulla solidità delle banche e dei loro investimenti nelle aziende ad alto debito è stata la determinazione della Fed (e della Bce) ad alzare i tassi di interesse per contrastare l’inflazione. La stretta creditizia non solo non ha prodotto risultati concreti nella lotta al caro-vita, ma ha reso i finanziamenti (o il rinnovo dei debiti) più difficili e più costosi da ottenere.

La rapida scomparsa di Svb, dunque, nasce in un contesto di incertezza economica e finanziaria che è arrivata al punto di rottura quando i depositanti (su consiglio dei loro consulenti di Venture Capital) hanno tentato di ritirare i fondi allo stesso tempo, una missione praticamente impossibile per qualunque banca commerciale. Svb, tuttavia, ha aspettato troppo a lungo per la liquidazione volontaria e lo stesso commissariamento da parte del Fondo di garanzia sui depositi non è riuscito a placare le paure di un possibile contagio della crisi. Come è evidente, la bancarotta della Svb e il panico che ha generato hanno ben poco in comune con le crisi bancarie del 2008, ma il suo potenziale è non meno dirompente: anche perché come 15 anni fa, le banche sono ancora massicciamente sovra-indebitate e sovraesposte ai derivati.

Così, anche per prevenire nuove crisi ed esplosioni incontrollate di panico, cominciano già a profilarsi le azioni di sostegno. La Fed ha annunciato il varo di un “piano di indennizzo e salvaguardia dei depositanti”, un modo elegante di chiamare i salvataggi: si chiamerà Bank Term Funding Program” e avrà in dotazione un fondo di 25 miliardi di dollari. L’acronimo è Btfp, una sigla che rievoca l’era Tarp dopo la crisi dei mutui: non a caso, c’è già chi sostiene che la dotazione del fondi potrebbe salire rapidamente fino a 2mila miliardi di dollari. È ovvio che una manovra di salvataggio delle banche in crisi rende più incerta la probabilità di qui a fine anno: anzi, un taglio dello 0,25% è già entrato nei radar dei mercati. Correggere la rotta sembra del resto inevitabile: anche se tassi più alti aumentano il margine di intermediazione delle banche, gli effetti collaterali della manovra sono devastanti per il patrimonio degli istituti. Quando la Fed ha iniziato ad alzare i tassi, i prezzi delle obbligazioni sono finiti al tappeto, mentre i rendimenti sono volati alle stelle.

Questa dinamica influisce negativamente sui bilanci bancari: se i rendimenti obbligazionari diventano più alti dei tassi/rendimenti che le banche offrono ai depositanti, risparmiatori e investitori non hanno alcun incentivo a tenere i soldi fermi in banca. Questo disallineamento, ovviamente, richiederà probabilmente alle banche di aumentare i tassi dei depositanti per competere con l’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato, una tattica costosa che taglia i profitti e macchia di rosso i bilanci. Le banche potrebbero emettere azioni per aumentare il capitale, ma questo diluisce la quota e il valore esistenti, che è poi il modo in cui vengono pagati i banchieri. E con un’inflazione crescente o persistente, il rendimento reale sui tassi dei depositanti anche “migliorati” diventa un rendimento negativo se aggiustato per la tassa invisibile del costo della vita.