La nostra Forza Italia
Da Fortunato al Pantheon nacque il “salvaladri” ma Scalfaro trattava Berlusconi come un contadino
Nella vicenda del provvedimento c’è tutta la storia della Forza Italia delle origini. Berlusconi pagherà poi anche il suo sogno rivoluzionario di un cambiamento radicale: il primo scoglio fu Scalfaro
Caro Paolo,
la sera andavamo da Fortunato al Pantheon. Lì c’era il tavolo Jannuzzi, grande e rotondo, sulla sinistra, dove potevi incontrare direttori di giornali e politici, ma anche qualche magistrato in disuso o avventurieri. La scomparsa del grande Lino, che per tanti di noi fu maestro e affabulatore, pochi giorni fa, mi ha riacceso nella memoria quel tavolo e quelle serate, che a volte si replicavano alla Campana, dove soggiornava abitualmente Giuliano Ferrara. A quei tavoli e in quelle serate, di giustizia si parlava sempre, un po’ perché erano presenti il liberale Alfredo Biondi e il socialista Memmo Contestabile, ma anche Vittorio Sgarbi e Piero Broglia, e tutti noi che abbiamo formato il primo gruppo giustizia di Forza Italia in Parlamento. Il famoso decreto sulla custodia cautelare, quello che Travaglio e i suoi amici amano ricordare come “salvaladri”, è nato un po’ anche lì, al tavolo Jannuzzi, o quanto meno in quelle serate è stato coccolato e accudito. E poi abbiamo pianto insieme per il nostro primo fallimento.
Silvio Berlusconi pagherà in seguito anche quello, il suo entusiasmo da neofita, il suo culto della società civile che lui riteneva migliore di quella politica, il suo amore per la libertà cresciuta sulla giustizia, il sogno rivoluzionario di un cambiamento radicale. Il primo grosso scoglio sarà l’incontro con Oscar Maria Scalfaro, immeritato presidente della Repubblica, che lo tratterà con la sufficienza del nobile costretto a ricevere a corte il contadino. E che metterà subito le mani, oh se le metterà, sulla formazione del governo. Intuì la pericolosità di un avvocato astuto come Cesare Previti alla giustizia e lo decapitò immediatamente con un argomento non del tutto infondato, non poteva diventare guardasigilli l’avvocato del premier. Costrinse così al sacrificio un altro avvocato, Alfredo Biondi, precedentemente destinato alla difesa. Mi piacciono i generaloni, era solito dire, perché loro sono leali. Sottinteso, i magistrati sono infidi. E fu così che un liberale cascò nella trappola del primo tentativo di riforma della giustizia.
C’è tutta la storia della Forza Italia delle origini, nella vicenda del “decreto Biondi”, un provvedimento sulla custodia cautelare che in realtà portava anche la firma del ministro Roberto Maroni, finché non ci fu da parte sua il disconoscimento di paternità, come diceva acutamente il liberale guardasigilli. Quando Alfredo ci ha lasciato novantenne nel 2020 ho avuto un grande rimpianto, quello di non aver avuto, da amica solidale, la forza di asciugargli le lacrime in quei mesi del 1994. Perché lui aveva sofferto tantissimo nel vedere messa in discussione la probità della sua storia personale, politica e professionale, a causa di un manipolo di piccoli uomini che nascondevano le proprie miserie sotto la toga. E che aizzavano i cittadini fino agli insulti per la strada. Non che fosse impreparato.
Quel che era successo nell’undicesima legislatura, con il famoso parlamento degli inquisiti e i 41 suicidi di Tangentopoli erano lì a dimostrare che la barriera posta da una certa magistratura contro qualunque speranza di riforma era ancora lì intatta. Sarebbe bastato volgere un attimo il capo all’indietro per ricordare il ministro di giustizia Claudio Martelli, che aveva voluto Giovanni Falcone al proprio fianco per un’efficace lotta dello Stato contro la mafia stragista, e che era stato liquidato con una telefonata del potente capo della procura milanese Saverio Borrelli, il quale gli preannunciava un’informazione di garanzia. E che dire di quel galantuomo di Giovanni Conso, il ministro tecnico voluto personalmente dal presidente Scalfaro, che aveva osato proporre un’uscita dignitosa da Tangentopoli proprio mentre i Pm di Milano ne auspicavano una diversa che prevedeva solo la gogna per i politici? Colpito e affondato, Conso passerà i successivi anni della propria vita a difendersi anche dalla bufala del secolo, il processo sull’inesistente trattativa tra lo Stato e la mafia.
Il “decreto Biondi”, al contrario di quel che era stato il “decreto Conso”, non proponeva l’uscita da Tangentopoli, ma interveniva sulla custodia cautelare, dividendo e classificando le tipologie di reati in tre diversi livelli. Era prevista la custodia in carcere per i più gravi, la detenzione domiciliare o altre forme di prevenzione per i meno gravi, fino all’indagine senza misure per i reati più lievi. Il provvedimento visse sei giorni, nacque di mercoledì, era il 13 luglio, morì il 19, quando Giuliano Ferrara, ministro dei Rapporti con il Parlamento, fu costretto a ritirarlo. Il disconoscimento di paternità da parte di Maroni e della Lega non fu spontaneo. In mezzo c’era stata la sceneggiata dei quattro eroi coraggiosi, Tonino Di Pietro, Gherardo Colombo, Francesco Greco e Piercamillo Davigo che si erano presentati in Tv con la barba lunga e gli occhi cerchiati di chi sta lavorando per il paese, a preannunciare le proprie dimissioni, perché senza manette non si poteva lavorare. Gli alleati lasciarono solo Silvio Berlusconi e il suo ministro Biondi. Ma noi del gruppo giustizia di Forza Italia ci ribellammo, e quella retromarcia non la votammo.
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