La nostra Forza Italia
Berlusconi mi invitò in Sardegna, cantammo in francese e mi mise a capo della Commissione Mitrokhin. Ma a Putin non andò giù
Il berlusconismo ha fatto presa a sinistra per noia: nei primi anni Novanta c’era una gran voglia di ottimismo per la fine della guerra fredda, che il cavaliere volle festeggiare in pompa magna nel 2002
Cara Tiziana,
le nostre vite berlusconiane sono un po’ sfasate nel tempo ma si pedinano con la grazia di un balletto. Ci separa una legislatura e poi ci siamo incontrati a cose fatte, in Forza Italia. Ricordi? La via crucis “partito di plastica” che sarebbe durato il tempo di una campagna pubblicitaria e che oggi, morto Berlusconi, è lì e cresce. E “il Kit del candidato” te lo ricordi? E fuori sul piazzale tutti i cosiddetti giornalisti addetti al colore a prenderci per il culo. Ma naturalmente ciò che ci rendeva coincidenti se non simili era il fattore umano, ovvero l’uomo, ovvero il Berlusca. I leader hanno questo in comune: sanno mantenere accese decine di migliaia di rapporti personali senza dimenticare uno. E anche io strinsi con lui una vera amicizia, anche se poi a causa della sua politica russa sono stato pugnalato alla schiena, ma questa è la politica, e se ti metti a piangere è meglio che cambi lavoro.
Noi oggi abbiamo accolto con entusiasmo e un certo fegato di salire sul palco e spiegare non una anomalia di cui siamo pentiti, ma un tratto comune vissuto con centinaia di migliaia che venivano dal comune sentire di sinistra – io socialista e tu al Manifesto – eravamo diventati – come i rinoceronti di Ionesco – dei berlusconiani? E amici e parenti e compagni di cene ci sputavano il loro, ma come cazzo è possibile? Allora io dico la mia sul perché abbia attecchito a sinistra: perché era ora e non se ne poteva più di tutto quel modo saccente e, parlo per me, ero arcistufo di mentire. Non era soltanto rivolta morale ma di noia. Non ne potevo più di quella coazione a ripetere bugie tutte condannate dalla storia e dal buon senso. Dopo la caduta del Muro e accessori tirava aria di normalizzazione a Praga e c’era voglia di dire che l’Occidente è bello, che democrazia è liberale o non è, che il profitto sarebbe la fabbrica della ricchezza e che non puoi rompere i coglioni riequilibrando i vuoti dalle tasche altrui e di tutta questa spocchia saccente di cui noi di sinistra eravamo spiritati, invasati dal possesso della lingua e della citazione. Poi, quando andavi a vedere, per lo più ladri di umorismo altrui e di rivoluzioni altrui. Mai una che fosse nata in Italia, sempre a rimorchio straccio di Stati Uniti, Francia e Inghilterra.
Conobbi Berlusconi da giornalista della Stampa quando Mieli mi chiese di intervistarlo e lui, Berlusconi, uscì fuori sul terrazzo aggiustando le cravatte dei dipendenti recitando e interpretando davvero la parte del manager moderno ma anche paternalista, adorato ma pieno di racconti e aneddoti. Restai fino a mezzanotte. Mieli andò poi al Corriere e alla Stampa mi volevano stabilizzare in Africa, così accolsi l’offerta del Giornale – che avvenne certamente perché nei rari incontri dei dibattiti era scattata una scintilla sulle questioni liberali. Una mattina del 2000 mi telefona Berlusconi e mi invita per tre giorni nella sua villa in Sardegna: “Soltanto noi due e il personale”. Si scusò personalmente con mia moglie e mi mandò a prendere all’aeroporto. Passammo tre giorni e tre notti a cantare il comune repertorio francese e mi mise a disposizione un paio di scarpe da trekking con cui ci arrampicavamo su rocce e sassaie, mangiavamo poca roba deliziosa e infine mi chiese: “Se si farà questa commissione d’inchiesta Mitrokhin, lei se la sentirebbe di esserne il Presidente?”.
Prima dovrei diventare parlamentare. “La presenterò al Senato in un buon collegio”. E così fu. Fui eletto quando ancora ci volevano i voti e mi ritrovai membro di Forza Italia, senatore di questo partito e cominciò dal maggio 2001 l’itinerario per approvare la legge che istituì la Commissione bicamerale d’inchiesta sul dossier Mitrokhin. Furono lacrime e sangue oggi dimenticate, insulti feroci e attacchi violenti, la parola d’ordine era “clava”: era imperativo ripetere che la Commissione sarebbe stata una clava. La legge fu approvata dopo un anno e la Commissione si riunì palazzo San Macuto per la prima seduta presieduta dal senatore a Vita Giulio Andreotti. Era un piccolo Parlamento di quaranta fra senatori e deputati di tutti i partiti, una grande macchina politica e storica che si mise in moto subito ma con grande fatica il due giugno del 2002.
Ma cinque giorni prima, il 28 maggio, era accaduto un fatto nuovo: benché la guerra fredda fosse già strafinita con la caduta dell’Urss, Berlusconi volle fare una gran festa a Pratica di Mare per dichiarare formalmente conclusa quell’era. Erano presenti oltre a Berlusconi capo del governo, il timido Vladimir Putin, il presidente Boris Yeltsin, ancora in carica appena arrivato al potere e che godeva di generale simpatia, il presidente americano George W. Bush, e fra brindisi e firme di documenti memorabili furono gettate le basi per una relazione stabile con Russia e Ucraina. Mi hanno poi detto che Putin chiese a Berlusconi: “Ma è vero che una commissione d’inchiesta del vostro Parlamento indaga sull’Unione Sovietica? Questo non è nello spirito. Non si potrebbe chiudere?”. La risposta del primo ministro italiano non si conosce, ma erano cambiate le carte in tavola e la Commissione di cui con puerile entusiasmo avevo accettato la Presidenza ne avrebbe pagato un prezzo pesante.
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