La nostra Forza Italia
Berlusconi era il cavaliere nero e il mio vecchio mondo di sinistra manco mi salutava, poi il miracolato Scalfaro rovinò tutto
Caro Paolo,
è stata la giustizia a portarmi a Silvio Berlusconi, ma determinante per quel percorso è stato l’appoggio di Marco Pannella, almeno a partire dal 1990. Ero allora una cronista milanese del Manifesto, avevo una mente politica e piena di sogni (certo, tu hai l’ideale, mi diceva ironicamente mia madre, che voleva offrirmi lezioni di bridge al Circolo La Patriottica), mai avevo però pensato di entrare nelle istituzioni. Ma i radicali sanno essere insistenti e sono bravi a convincere, così mi ritrovai candidata e poi eletta al consiglio comunale di Milano nella Lista antiproibizionista di Marco Taradash.
Mi occupavo quasi esclusivamente di politica sulle droghe e distribuivo in aula profilattici e siringhe a democristiani imbarazzati e socialisti esterrefatti, la politica di Bettino Craxi era decisamente volta al proibizionismo. In quel consiglio, che si chiuse con l’arresto di Mario Chiesa e la strage di Mani Pulite, fui notata da Dario Cossutta, figlio di Armando. E arrivai in Parlamento, sollecitata anche da Pannella, da radicale ma come indipendente nella neo-nata Rifondazione. Mai avrei pensato di essere eletta, c’erano candidati come Luciano Canfora che nutrivano speranze superiori alle mie. Ma in quel 1992, dopo il referendum promosso da Mario Segni, c’era la preferenza unica, e le mie battaglie sulla giustizia al Manifesto mi avevano premiato. Così, se sono arrivata a Silvio Berlusconi e Forza Italia, credo di doverlo anche alla storia del partito radicale e al suo leader e fondatore. Mi sono ritrovata in un mondo più simile alla famiglia borghese da cui provenivo che non ai luoghi della sinistra che erano i miei da tanti anni. Ma Forza Italia non era e non sarà mai il partito di plastica.
È stato nella sua nascita un movimento corsaro di sognatori che ha occupato il mondo, senza riuscire a cambiarlo. Mai avevo visto a Milano, se non per eventi sportivi, i capannelli in piazza Duomo in cui si parlava di politica, entravi in un bar e sentivi subito il nome di Berlusconi, i club spuntavano come funghi e tutti volevano entrarci. Una specie di sessantotto della borghesia. Ma non solo. Quando ci fu il primo incontro al teatro Manzoni, con la presentazione dei candidati e sì, quel kit che anche a me parve ridicolo, l’entusiasmo ci faceva ridere e cantare, perché eravamo felici. E fuori erano dovuti intervenire i pompieri perché quelli che volevano ma non potevano entrare erano sterminati. Quando avevo incrociato la mia ex collega del Manifesto e le avevo sorriso, lei aveva girato bruscamente la testa dall’altra parte. Mi era dispiaciuto, ma avevo capito una volta di più che la sinistra spocchiosa e piena di rancore non mi apparteneva più. Il mondo liberale, la società dei produttori contro quella dei burocrati, aveva quelle aperture mentali, di cultura e di tolleranza che non avevo trovato tra i miei compagni di lotta. Neanche tra le mie amiche magistrate del collettivo giustizia, un gruppo di vere garantiste.
Credo in quell’anno di aver buttato via la mia agendina con indirizzi e numeri di telefono, non perché non avessi ancora affetti, ma perché la gran parte del mio mondo non era più mia. Non mi salutavano. Berlusconi era il cavaliere nero. Punto. Impossibile ragionare. Invece per me fu una scoperta. Dopo il Manzoni, ci fu Fiuggi, la prima grande assemblea di Forza Italia, con un Silvio amorevole a chiederci di dargli del tu, anche se poi in pochi lo abbiamo fatto. E poi in Parlamento a combattere sulla giustizia, con vecchi e nuovi amici impegnati sullo stesso campo. Quelli che conoscevo già, come Alfredo Biondi e Vittorio Sgarbi, Giuliano Ferrara, Memmo Contestabile e il giornalista Lino Jannuzzi, che non era deputato né senatore, ma era un vero maestro di garantismo. E quelli per me nuovi, come Fabrizio Del Noce e Piero Broglia, e poi Tiziana Parenti e Antonio Martino che avevano avuto un certo peso nelle mie scelte. L’aula di Montecitorio era completamente cambiata. Se nella precedente legislatura, quella delle icone come Andreotti, Craxi, Occhetto e D’Alema, eravamo veramente in pochi, i radicali, qualche liberale e socialista, ombre sparute del Pds come Giovanni Correnti o Giovanni Pellegrino, ad avere a cuore lo Stato di diritto, ora la speranza era grande e quando qualcuno di noi prendeva la parola, ci sommergevano di applausi. Anche per questo in seguito la delusione sarà più cocente, più profonda.
Perché eravamo davvero convinti che Forza Italia, con la sua presenza di un mondo nuovo di entusiasti e anche dei più competenti ed esperti che provenivano dal mondo radicale, liberale o socialista, la rivoluzione sulla giustizia l’avrebbe portata a compimento. Non andò così. Intanto ci fu subito qualche difficoltà nella formazione del governo. E riguardò proprio la giustizia. Non dimentichiamo che il presidente della Repubblica era quel moralista immorale di Oscar Maria Scalfaro, il grande miracolato degli ultimi mesi della prima Repubblica, rotolato dal nulla alla presidenza della Camera e subito dopo al Quirinale. Scalfaro interloquì parecchio nella formazione del primo governo Berlusconi, e sarà determinante anche nella sua fine, sei mesi dopo. La prima vittima fu Alfredo Biondi, grande liberale e grande avvocato.
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