I terremoti sono fenomeni naturali ricorrenti e, in determinate aree del mondo tra cui l’Italia, la civilizzazione umana è condannata a fare ciclicamente i conti con essi. Ma il contesto storico nel quale i terremoti avvengono di volta in volta attribuisce loro un significato particolare. Il sisma irpino del 23 ottobre 1980, di cui ieri ricorreva il quarantennale, per il momento e le circostanze in cui si verificò ha influito non poco sulla storia italiana e su quella del Mezzogiorno del Paese.

Quando, in quella sera di novembre, la terra tremò – producendo crolli, quasi 3mila vittime e danni in un’area estesa dalla provincia di Avellino a quelle di Potenza, Salerno e Napoli fino al capoluogo campano – l’Italia era un Paese in faticosa ripresa da un decennio drammatico di crisi economica, conflittualità politica estrema e terrorismo in cui si era consumata gran parte del patrimonio di crescita e benessere accumulato nei decenni del “boom” postbellico. Nel Sud, poi, solo da poco i primi benefici di quel “miracolo” erano giunti e non si erano ancora tradotti in un più solido sviluppo quando l’intero Occidente industrializzato aveva cominciato a essere investito dalla stagflazione innescata dal grande choc petrolifero.

Le “cattedrali nel deserto” e i poli industriali appena nati erano già in affanno e l’”economia del vicolo”, ancora dominante in ampie zone di quella che stava ormai diventando l’area metropolitana di Napoli, rapidamente si disfaceva lasciando il posto a crescenti fenomeni di emarginazione e di criminalità organizzata. Il terremoto del 23 novembre 1980 sottolineò bruscamente tutte queste contraddizioni irrisolte e contribuì in misura significativa alla loro evoluzione.

Esso pose in evidenza la condizione di estrema arretratezza delle aree interne del Mezzogiorno – l’”osso” di cui aveva parlato Manlio Rossi Doria – che apparivano rimaste quasi impermeabili a ogni processo di modernizzazione. Accese un riflettore sulle citate dinamiche economiche e sociali napoletane, già emerse in occasione dell’epidemia di colera del 1973, mostrando le condizioni di fatiscenza del sottoproletariato del centro storico e delle periferie industriali. E fece venire impietosamente in luce le carenze ataviche, mai sanate, della macchina amministrativa statuale e locale, oltre che delle infrastrutture del Paese, a causa delle quali i soccorsi alle popolazioni colpite accumularono ritardi drammatici.

Per quanto riguarda l’ultimo punto, il trauma generato dal sisma diede un decisivo impulso alla costruzione di una struttura specifica destinata a coordinare gli interventi in occasione di catastrofi naturali. Penso al Dipartimento per la Protezione Civile, fondato nel 1982 e per un certo periodo promosso anche a Ministero: istituzione la cui funzione essenziale abbiamo potuto sperimentare in altre successive fasi di grave necessità, fino alla recente pandemia. Per il resto, però, le derive inaugurate dal 23 novembre 1980 sono state di segno complessivamente negativo.

I cospicui fondi stanziati dallo Stato per la ricostruzione – indirizzati nelle intenzioni non soltanto alla riedificazione del patrimonio edilizio distrutto, ma anche alla rinascita economica delle aree colpite – lievitarono a livelli esorbitanti disperdendosi in mille rivoli di interventi a pioggia, non dando significativi contributi alla ripresa dell’apparato industriale, ma in compenso alimentando un gigantesco sistema di assistenzialismo clientelare, inquinato in molti casi da infiltrazioni malavitose. In tal modo, essi in realtà incoraggiarono in Campania un processo di de-industrializzazione che a Napoli, nel decennio successivo, si sarebbe incarnata nel ridimensionamento dell’Alfa di Pomigliano, passata in mani Fiat, nella “dismissione” dell’Italsider e nel sostanziale smantellamento dell’area industriale orientale.

Contemporaneamente il centro storico di Napoli, ridotto a uno spettrale ingorgo di “tubi Innocenti”, si svuotava di una consistente parte del suo sottoproletariato che andava a popolare nuovi rioni suburbani destinati ben presto a essere dominati da una camorra di nuova generazione, rinvigorita dalla speculazione sui fondi post-terremoto e dal commercio internazionale degli stupefacenti. Soprattutto, per l’Italia intera il tornante del sisma irpino segnava la cronicizzazione di un virus già attecchito negli anni Settanta: quello dell’”emergenza” come stato permanente, vero e proprio metodo di governo, mezzo per rendere definitivo il provvisorio e per far passare provvedimenti che altrimenti si sarebbero persi nei meandri della disfunzionale macchina istituzionale.

Un virus che ha subito, nei decenni successivi, svariate recrudescenze – da quella degli attentati mafiosi e della “rivoluzione giudiziaria” del 1992-93 a quella dello spread del 2011 – fino ad arrivare allo “stato di eccezione sanitario” messo in piedi nel 2020 dal governo Conte bis.