Tanto tuonò che piovve: l’elezione di Trump segna un punto di svolta per i temi della diversità e dell’inclusione (D&I) nelle aziende. Finalmente! Tutto finito? No, al contrario. Inizierà un processo di rinnovamento e riflessione che darà nuova linfa ed energia. A patto, però, che si rifletta su cosa è andato storto. Già, ma cosa è andato storto?

 Tokenismo

L’inclusione è stata spesso ridotta a un simbolo vuoto. Persone appartenenti a gruppi minoritari sono state inserite o promosse nelle aziende solo per soddisfare quote o migliorare l’immagine pubblica, senza un impegno autentico. L’eccessivo focus sulle categorie “di minoranza” ha creato nella “maggioranza” un senso di ingiustizia e di esclusione (discriminazione inversa). Dimenticando che una parte delle minoranze non vorrebbe (contrariamente a quello che diceva Nanni Moretti) essere parte di una minoranza, ma semplicemente “parte” di un tutto. L’enfasi sulla diversità ha portato a conflitti culturali (cultural clash) tra minoranze e maggioranze, con una recrudescenza di posizioni anti-inclusione. Parallelamente, l’insistenza sull’inclusione ha generato una paura diffusa di una tendenza al conformismo e alla perdita della propria originalità e differenza.

Due ingiustizie non fanno una giustizia

Agli errori del passato, a danno di alcune categorie, si è risposto con le quote. All’ingiustizia del passato si è aggiunta una nuova e diversa ingiustizia, quando la risposta è stata data preferendo alle competenze le categorie. L’intento era eliminare le categorie e le etichette per renderle irrilevanti, ma la D&I ha promosso una cultura di identity politics, dove l’individuo è definito principalmente dalla sua appartenenza a un gruppo piuttosto che dalle sue qualità personali. Così, paradossalmente, oggi le etichette sono più forti che mai.

Tutta retorica

Abbiamo assistito a continue dichiarazioni di intenti, ma pochi fatti concreti. Non è stato spiegato il senso profondo dell’inclusione, ritenendolo scontato. Di conseguenza, chi non era d’accordo si è sentito escluso, non compreso o addirittura sbagliato. Aver “costretto” le persone ad aderire a un modello (ritenuto fideisticamente corretto), ha prodotto un contraccolpo. Il cambiamento è una porta che si può aprire solo dall’interno e convincere richiede tempo; uscire dalla zona di comfort può generare resistenza. Per alcuni è stato anche un elemento di disagio. Molte persone sono state escluse per fare inclusione?

Diversity Fatigue

Un eccesso di attività D&I ha portato stanchezza e noia tra le persone. L’entusiasmo è calato generando una saturazione che ha ridotto l’efficacia delle iniziative, producendo più cinismo. Non si può risolvere tutto con la formazione. Ad esempio, la formazione “sui pregiudizi impliciti” ha ottenuto pochi effetti pratici. Molti dipendenti si sono sentiti forzati a partecipare a programmi percepiti come non pertinenti agli scopi aziendali. Il modello one-size-fits-all, una formazione uguale per tutti senza considerare le specificità culturali sia individuali sia organizzative, ha spesso peggiorato la situazione.

Quantità invece di qualità

La corsa alle certificazioni ha prodotto un’eccessiva enfasi sui numeri. Un ambiente inclusivo non si misura solo dal numero di partecipanti o di interventi, ma dalla qualità dell’inclusione di ciascuna e ciascuno. L’efficacia di molti interventi rimane dubbia; studi empirici mostrano risultati contrastanti sull’impatto positivo. Ma dopo ogni tempesta torna sempre il sole. All’inclusione “radicale” si è fatto il momento di contrappore un’inclusione “riformista”, che dovrà essere autentica, equilibrata, morbida, condivisa e senza etichette e categorie. Un’inclusione che riguardi tutti, nessuno escluso; anche chi l’inclusione non la vuole. È il momento di chiudere l’ombrello e tornare a guardare il sole.