Sembra l’inquietante SP.E.C.T.R.E. Sezione Italia, invece è solo il “Deposito Nazionale Unico” dove poter finalmente custodire in piena sicurezza i nostri rifiuti radioattivi prodotti dallo smantellamento e dalla bonifica delle nostre 4 ex centrali dismesse ormai 36 anni fa, e per rispettare l’impegno preso in sede internazionale ed europea di un sito con capacità di immagazzinamento di 78.000 metri cubi di nostre scorie a bassissima e bassa attività, e di 17.000 metri cubi di rifiuti nucleari “ad alta attività”. Dovrebbe essere questa, in un paese normale, la premessa per ogni discussione sul “nucleare sì-nucleare no”, essendo la pre-condizione per l’entrata nel futuribile nuovo ciclo delle centrali a fusione che non producono gas serra e, a differenza della fissione, nemmeno scorie radioattive. Eppure basta il minimo accenno al Deposito per far entrare qualsiasi area con un sito possibile indicato e un qualsiasi dibattito in modalità Spy Story. E così la saga del rinvio continua, e lo stesso ministero dell’Ambiente oggi sposta ancora più avanti nel tempo la sua costruzione, a “non prima del 2032”, sempre che si individui la località che dovrà ospitarlo. E nel frattempo continua la nostra produzione media nazionale mensile di 1.000 metri cubi al mese di scorie nucleari soprattutto ospedaliere, restano il mancato smantellamento definitivo delle nostre ex centrali nucleari e i problemi di insicurezza ambientale e sanitaria nazionale, con i relativi costi stellari che stiamo sostenendo.

Siamo ormai a quasi mezzo secolo dal The End dell’energia nucleare tricolore. Correva, infatti, il 1987, l’anno d’inizio della storia infinita del Deposito dopo l’onda referendaria antinucleare che l’8 e il 9 novembre, sotto lo choc dell’esplosione del reattore 4 della centrale di Cernobyl all’1.23 del 26 aprile 1986, spazzò via il sogno nucleare tricolore. Fu l’allora Presidente del Consiglio, il Dc Giovani Goria, a prendere atto della volontà popolare e a chiudere il ciclo del combustibile atomico utilizzato per produrre energia dal 1963 con 1.500 MW di potenza installata nei reattori di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta). Un “No Nuke” poi ribadito sotto il Governo Berlusconi nel secondo referendum del 12-13 giugno 2011 che cancellò la “realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare”. Ciò rendeva però ancora più urgente la realizzazione del Deposito, a fronte delle condizioni accertate di insicurezza degli ex impianti nucleari e dello stoccaggio di scorie radioattive. Oggi è ancora più urgente la sua realizzazione ed è plateale la contraddizione. Con il governo a parole più filo-nuclearista ma che non indica soluzioni, con un ampio e trasversale schieramento pro-nucleare ma che tra documenti, convegni e appelli in serie per nuovi investimenti giganteschi per il ritorno dell’atomo energetico soprattutto con i nuovi reattori a fusione come antidoto alle emissioni fossili, non cita nemmeno en passant la pre-condizione del ritorno dell’atomo energetico e cioè la presenza di un sito di stoccaggio di scorie, scansato come minaccia epocale. Eppure l’industria ci crede. Edison-Ansaldo Nucleare già traguarda 30 miliardi di investimenti per di 20 “mini-centrali di nuova generazione”, gli Small Modular Reactor con potenza elettrica sotto i 300 MW, disponibili dal 2030 al punto da far immaginare a Salvini di pigiare nel 2032 il primo interruttore della centralina nucleare sotto casa perché “da milanese la prima la vorrei a Milano”. Ma il che fare con le scorie non rientra nei pensieri e nemmeno nei budget.

La localizzazione e la costruzione luogo di raccolta iper-sicuro dei nostri rifiuti radioattivi pericolosi e a media e bassa attività sono affidate alla SOGIN, l’acronimo che sta per “Società Gestione Impianti Nucleari”, l’azienda pubblica nata Enel oggi di proprietà del Tesoro, dal lontano 1999 insieme allo smantellamento delle nostre 4 centrali, in gergo tecnico il decommissioning. L’Autority ARERA, a fine 2020, rilevava il suo costo a oltre 4 miliardi di euro, di cui 2,2 per stipendi del personale (1.100 unità, con 30 dirigenti), ma con lavori eseguiti fermi al 30% dei “programmi di smantellamento”, tutto riversato nella nostra bolletta elettrica alla voce “oneri di sistema”. Ma se il Deposito è al palo, i rifiuti nucleari continuiamo a produrli ogni santo giorno nei laboratori di ricerca scientifica, in lavorazioni con reagenti farmaceutici, per terapie mediche, per radiografie industriali, nei sistemi di controlli micrometrici di spessore delle laminazioni siderurgiche, nei marker biochimici e persino nei parafulmini e rilevatori di fumo. L’”Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione” calcola 16 tonnellate di rifiuti radioattivi a bassa intensità immagazzinate in una ventina di depositi, e tra questi l’impianto nucleare Enea-Trisaia di Rotondella, l’impianto Opec 1 e Triga Tc 1 della Casaccia, i laboratori di ricerca Enea e Ispra di Cadi, il “Laboratorio Energia Nucleare Applicata” dell’Università di Pavia, l’impianto “Fabbricazioni Nucleari” di Bosco Marengo nell’alessandrino e il centro di ricerca Enea-Saluggia in provincia di Vercelli. Sono siti definiti da ogni ente scientifico “non idonei”, come Saluggia in piena area alluvionale e a 60 metri dalla Dora Baltea e sulla falda dell’acquedotto del Monferrato e da dove, dopo l’alluvione del 2000, il fisico premio Nobel Carlo Rubbia allora presidente dell’Enea avverti che “lo sversamento di una parte di quei liquidi renderebbe necessaria l’evacuazione delle sponde del Po fino al delta, e terreni e falde adiacenti inutilizzabili per decenni”.

In più abbiamo i materiali più pericolosi e, sempre a Saluggia, ad esempio, ci sono 13 tonnellate di combustibile irraggiato stoccate nelle “piscine” del “Deposito Avogadro Spa” che dovevano essere riprocessate in Francia senonché Parigi ha bloccato gli invii nell’attesa di garanzie sui tempi di realizzazione del nostro Deposito, annunciando che dal 2025 rientreranno in Italia 50 metri cubi di residui radioattivi prodotti dal riprocessamento di 235 tonnellate di combustibile inviate in Francia, e rientreranno anche altre 1.630 tonnellate riprocessate in Inghilterra a Sellafield. Tutto fa immaginare però che resteranno dove sono, strapagate e con penali molto salate da aggiungere ai 230 milioni di euro già spesi finora per tenerle fuori dai confini. Ogni cronoprogramma per lo smantellamento delle centrali e la decontaminazione dei siti e il Deposito però salta anno dopo anno e si collezionano inerzie operative. La stessa SOGIN, che pure ha acquisito notevoli capacità tecniche, per problemi di governance interna è finita commissariata nel giugno 2022 dal governo Draghi, mentre paradossalmente risolveva i guai nucleari di Putin. La società partì, infatti, in pompa nel 2003 con il brivido della grandeur negli anni di Berlusconi aprendo a Mosca una sfavillante succursale per gestire il contratto con la Russia di Putin per la bonifica e lo smantellamento di 117 sommergibili atomici. In quel dopo Eltsin il terrore per le sorti del combustibile radioattivo sovietico spinse il G8 a favorire la soluzione italiana, pagata anche dall’Italia. E in effetti il “soccorso italiano” rigorosamente top secret, anche con due navi per il trasporto di materiale radioattivo realizzate da Fincantieri, si è appena concluso e ufficialmente ci sarebbe costato 360 milioni di euro. Dietro la missione italiana c’era però la vaga speranza di un deposito Made in Italy in terra sovietica per stoccare le nostre scorie. Ma alla SOGIN, che iniziò a operare sulla flotta nucleare dal 2005, Putin vietò per legge l’importazione delle nostre scorie nucleari.

Oggi resta la cruda verità di oltre due decenni persi alla ricerca del sito sicuro e definitivo in un’area non vincolata, non a rischio sismico o vulcanico, di frane o di alluvioni, lontana dal mare e da corsi d’acqua e da aree industriali e urbane, posta a una quota topografica bassa. Ogni proposta si è sempre scontrata con rivolte di piazza e il trasversale e unanime “no grazie” di politici e popolazione da Scanzano Jonico all’Alta Murgia, dalla Maremma Toscana alla Sardegna, da Gravina a Matera. Tutti sempre uniti contro il Deposito fatto immaginare come una mega-centrale atomica. Dal 2002 girano mappe di aree potenzialmente idonee ad ospitarlo, indicate dopo lunghi e rigorosi check-up tecnico-scientifici affidati all’ISPRA, e dal 15 marzo 2022 è secretata al Ministero dell’Ambiente la definitiva “Proposta di Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee”, frutto dell’ultima consultazione iniziata il 5 luglio 2021 e dell’analisi di circa 600 osservazioni e proposte tecniche pervenute da Regioni e Comuni, associazioni e comitati, ordini professionali e aziende, Soprintendenze e privati cittadini.

La “Carta” contiene 67 siti tra aree idonee e zone possibili. Sono 12 le aree selezionate: 7 in Piemonte – in provincia di Torino a Rondissone-Mazze-Caluso e a Carmagnola, e in provincia di Alessandria con le aree Alessandria-Castelletto, Monferrato-Quargnento, Fubine-Quargnento, Alessandria-Oviglio, Bosco Marengo-Frugarolo, Bosco Marengo-Novi Ligure; e 5 nel Lazio, tutte in provincia di Viterbo tra Canino-Montalto di Castro e Corchiano-Vignanello. Seguono 11 zone valutate come “possibili” a Castelnuovo Bormida-Sezzadio (Alessandria), nella Val d’Orcia senese tra Pienza e Trequanda, nel grossetano a Campagnatico, nelle Murge e nel materano, tra Gravina e Altamura, tra Matera e Taranto e a Laterza. Essendo ogni area pronta a nuove barricate, al ministero dell’Ambiente puntano ormai su una auto-canditura, e nel prossimo decreto energia ci sarà una norma per agevolarla in cambio di investimenti per complessivi 1,5 miliardi di euro con 4.000 occupati per 4 anni di lavoro in un’area di 110 ettari per un Deposito “a matrioska” con 90 “celle” in calcestruzzo armato che a loro volta conterranno 90 “moduli” in calcestruzzo speciale dove saranno collocati 90 contenitori metallici per scorie che resteranno sigillate per tre secoli. E il sito sarà affiancato da un “Parco tecnologico” da 40 ettari. All’orizzonte c’è Trino Vercellese, in un Piemonte dove è stoccato il 73% delle nostre scorie. Sapendo che il Deposito non è una centrale nucleare, che le condizioni di rischio attuali dei nostri residui nucleari sono reali, che siamo inadempienti e in procedura d’infrazione europee, può l’Italia continuare a rinviare?