Se c’è una cosa utile che la pandemia ci ha regalato, tra tanti aspetti negativi e spesso tragici, è un minimo di dimestichezza in più con un approccio basato sui numeri, che permetta di interpretare la realtà prescindendo dalle sensazioni soggettive e basandosi sull’obiettività dei dati. Si tratta di un metodo che, epidemie a parte, può essere applicato a qualsiasi fenomeno della nostra società, e che forse è opportuno adottare anche per affrontare la questione dei suicidi in carcere, visto che le sole notizie in merito, ancorché drammatiche, non sembrano sufficienti a destare la giusta attenzione.

Andiamo per ordine, e diamo un’occhiata ai numeri che abbiamo a disposizione. Dall’inizio dell’anno nelle carceri del nostro paese si sono tolte la vita dodici persone detenute (undici uomini e una donna), corrispondenti alla media (spaventosa) di un suicidio ogni tre giorni e mezzo. Naturalmente si tratta di un lasso di tempo troppo ristretto per trarre conclusioni generali. Per costruire una visione d’insieme più solida dobbiamo prendere in esame un periodo più significativo, ad esempio quello che va dal 2000 al 2021: ventidue anni in cui nelle nostre carceri si sono tolte la vita 1.222 persone, pari a una media di 55,5 suicidi l’anno. Poiché dagli inizi degli anni duemila il numero dei detenuti nei nostri istituti penitenziari si è mantenuto relativamente stabile, attestandosi su un livello medio pari a circa 58mila unità (stiamo trattando i numeri in modo approssimativo, ma più che sufficiente a ottenere una stima di massima), si ricava con facilità che la media di suicidi nell’ambito della nostra popolazione carceraria è pari a circa nove suicidi ogni diecimila persone.

Già a prima vista non è difficile comprendere che si tratta di un numero molto alto. Ma per apprezzare appieno la sua entità sarà utile raffrontarlo col tasso di suicidi nella popolazione generale. Grazie ai dati elaborati dall’Istituto superiore di sanità sappiamo che in Italia si registrano ogni anno circa 4.000 morti per suicidio. Prendendo in esame la popolazione con età superiore a 15 anni (non solo perché il suicidio è un evento statisticamente molto raro nell’infanzia, ma anche perché questa operazione ci aiuta a comparare il dato con quello degli istituti penitenziari, nei quali accedono quasi esclusivamente gli adulti) questo dato corrisponde grosso modo a un tasso di 10 suicidi ogni 100mila abitanti, che riportato alla stessa scala utilizzata per i detenuti equivale circa a un suicidio ogni diecimila individui. Dal raffronto tra i due indici si può concludere che il tasso suicidario nella popolazione carceraria è pari a circa nove volte quello riscontrabile nella popolazione generale.

Questo risultato, al di là del modo rudimentale con cui l’abbiamo ottenuto, ci dice in modo molto chiaro che il numero dei suicidi negli istituti penitenziari non è grande: è enorme. La reclusione in carcere rappresenta un gigantesco fattore di rischio in relazione all’eventualità del suicidio, perché chi viene recluso ha una probabilità di togliersi la vita quasi decuplicata rispetto a chi conduce una vita libera. Tutto ciò senza contare i tentativi di suicidio sventati o semplicemente non andati a buon fine, di cui non è materialmente possibile tenere il conto (ma che chi frequenta il carcere sa essere molto numerosi), e la frequenza degli episodi di suicidio tra gli agenti di polizia penitenziaria, anch’essa ampiamente superiore alla media nazionale.

Le cause di questa macroscopica differenza tra probabilità di suicidio in carcere e probabilità di suicidio fuori dal carcere sono ormai arcinote, perché formano oggetto di analisi e studio da decenni. Si tratta di cause sistemiche, più che puntuali: se da un lato è evidente che determinate condizioni (l’abuso della custodia cautelare, il sovraffollamento, le condizioni strutturali dei singoli istituti, la ridotta quantità di attività lavorative e ricreative in determinate realtà) fanno aumentare la possibilità di eventi critici, dall’altro è ormai acclarato che il grosso del rischio si deve alla privazione della libertà in quanto tale, che determina con grande frequenza stati di ansia, di depressione e di disperazione.

Il carcere, insomma, è una fabbrica di suicidi. E meraviglia, perfino al di là del disinteresse endemico che la nostra classe politica nutre nei confronti del mondo penitenziario, che un dato così allarmante non sia sufficiente a indurre un complesso di iniziative che investa almeno due fronti: da un lato gli interventi che sarebbe possibile operare da subito per migliorare le condizioni di vita delle persone detenute, per incrementare il ricorso alle misure alternative e per ridurre ai minimi termini l’istituto della carcerazione preventiva; dall’altro un ripensamento profondo della funzione e dell’effettiva utilità dell’istituzione carceraria, nell’ottica della sua progressiva riduzione al campo dell’extrema ratio e perciò, nella maggior parte dei casi, del suo superamento. Non c’è più tempo da perdere. Perché si tratta, numeri alla mano, di fermare una strage.

Consigliere regionale del Lazio di +Europa Radicali