Mai la finale di un Masters 1000 era durata tanto a lungo, 229 minuti giustificati dai 36 game e dai 2 tie-break (5-7 7-6 7-6). Peraltro, da parecchi anni l’ultimo atto di un torneo di prima fascia al meglio dei tre set non s’era rivelato, strada facendo, così incerto ed emozionante grazie al gioco scintillante messo in mostra dai protagonisti e al contesto drammatizzato dal caldo micidiale di Cincinnati, dagli appelli quasi disperati di Novak Djokovic al suo angolo (“Marco, aiutami! Cosa devo fare?”, urlato in italiano al preparatore atletico Marco Panichi nella fase difficile tra il primo e il secondo set), dalle lacrime irrefrenabili di Carlos Alcaraz dopo l’errore che consegnava il titolo all’avversario.

I numero 1 e 2 del ranking mondiale – da ieri ufficialmente separati da venti minuscoli punti nella classifica ATP: 9815 lo spagnolo, 9795 il serbo – hanno onorato al meglio la rivalità che sta segnando gli ultimi anni di attività del campione di ventitré major, classe 1986, e i primi del ragazzo di Murcia, due slam già nel curriculum, classe 2003. È una rivalità che rassicura chi temeva l’avvento di una fase di mediocrità dopo l’uscita di scena di Roger Federer e l’addio ormai scontato di Rafael Nadal, garantendo una transizione senza traumi per lo show business e, dunque, almeno un’altra stagione durante la quale non ci sarà un mattatore senza competitori alla sua altezza.

A meno di un mese e mezzo dalla sconfitta subita per mano di Alcaraz a Wimbledon in luglio e a una settimana dal via all’ultimo major dell’anno, Djokovic ha definito, trionfando domenica, il campo anche mediatico del tennis prossimo futuro. L’ha detto a chiare lettere ad Alcaraz: ci vediamo agli Us Open, dove la gente vuole che ci battiamo in un’altra finale da antologia. Dagli Stati Uniti il superduello si trasferirà poi a Torino per le ATP Finals di novembre, a Melbourne per gli Australian Open in gennaio e così via, di slam in slam con soltanto qualche passaggio a livello di Masters 1000.

Di certo sui percorsi newyorkesi dei due dominatori della stagione – il terzo, Daniil Medvedev, può solo intravedere in lontananza i loro fanalini di coda – s’accentrerà a breve l’attenzione dei giornali, dei siti e delle televisioni oltre che del pubblico colorato e chiassoso di Flushing Meadows. Quanto gli è accaduto dieci giorni fa a Toronto, dove è stato eliminato dall’americano Tommy Paul nei quarti di finale, e nei cinque turni di Cincinnati, dove non ha chiuso nemmeno un match in due set, dovrebbe agitare i sonni di Carlito. Se trova qualche difficoltà contro onesti turnisti del circuito come gli australiani Jordan Thompson e Max Purcell, come se la caverà contro avversari come Jannik Sinner, Holger Rune, Stefanos Tsitsipas e, soprattutto, Medvedev, che ormai vedono in lui l’uomo da battere per definizione se non vogliono essere relegati fin d’ora a ruoli di comprimari? Paradossalmente, Djokovic potrà invece giocare senza pressione, conservando le energie fisiche e mentali per la finale che lo vedrebbe sfidare il murciano sul campo che l’ha visto vincere meno di quanto avrebbe potuto e voluto: per colpe, a dire il vero, in gran parte proprie.

Claudio Giua

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