Donald Trump e Boris Johnson hanno avuto, quando erano entrambi in carica rispettivamente come Presidente degli Stati Uniti e come Premier britannico, un rapporto molto buono. Moltissime le somiglianze tra i due: al netto della curiosa capigliatura e della passione infinita per le cravatte colorate, hanno sempre avuto molte idee (conservatrici) in comune, quella buona dose di populismo mischiato ad un moderato sovranismo che li ha portati a vincere le elezioni nei loro Paesi e soprattutto, last buy not least, un discutibilissimo amore per le bugie.

Piccole bugie, ma anche grandi, enormi, in alcuni casi pericolose. Dal “Covid è sotto controllo” di Donald Trump tragicamente smentito dai successivi dati sui decessi (negli Stati Uniti si è arrivati a 600mila morti), a quando scatenò l’inferno in Alabama, perché la inserì – contro il parere di tutti i meteorologi – tra gli stati a fortissimo rischio dell’uragano Dorian, per citarne solo due memorabili. Ma l’ex premier britannico non fu da meno: in campagna elettorale per la Brexit, ma anche dopo, ripetè all’infinito che il servizio sanitario britannico avrebbe avuto da spendere 350 milioni di sterline in più a settimana, cifra che lui – sbagliando – sosteneva fosse equivalente ai contributi all’UE da parte del Regno Unito. Fino alla più grave per un servitore di Sua Maestà : la bugia che disse alla Regina Elisabetta quando la consigliò invano di sospendere il Parlamento per cinque settimane.

Bugie, bugie. Come quelle che contraddistinguono le fasi di questi due leader politici atlantici. Donald incriminato per aver conservato illegalmente nella sua villa a Palm Beach in Florida documenti top secret che contenevano informazioni sulla difesa nazionale degli Stati Uniti. E per aver ostacolato, anche con la menzogna, gli sforzi degli agenti del governo federale che tentavano di recuperare i documenti riservati. Boris invece accusato di aver mentito al Parlamento riguardo al cosiddetto “Partygate“, uno scandalo su feste tenute a Downing Street durante le restrizioni per il Covid-19. La commissione ha suggerito una sospensione di 90 giorni dal parlamento ma questa non avrà effetto poiché Johnson li ha furbescamente preceduti dimettendosi.

Fin qui le similitudini, fortissime. Ma è il contesto politico nazionale ad essere diverso tra i due.

Lunedì la Camera dei Comuni britannica voterà se accettare o respingere le conclusioni della commissione sul “Partygate” ed il governo (conservatore) ha dichiarato che non farà pressione sui parlamentari Tory affinché votino in un senso o nell’altro: una scelta ben diversa da quella che vedremo stanno prendendo i Repubblicani negli Stati Uniti. Ed in questi mesi peraltro non sono mancate parole anche molto dure da parte di esponenti di rilievo del partito conservatore britannico nei confronti dell’ex loro leader. Certo, Boris resiste eccome. Ha detto “tornerò”, ha accusato il premier Suniak di parlare di “spazzatura” (il premier aveva qualche giorno fa rivendicato la scelta di non aver voluto nominare amici di Johnson nella commissione che lo avrebbe dovuto giudicare, sostenendo che gli era stato chiesto di fare qualcosa che non trovava giusto), ha dichiarato che “dobbiamo realizzare pienamente la Brexit e il programma del 2019, dobbiamo distruggere il Labour alle prossime elezioni”. Insomma, un Boris Johnson in gran spolvero ma in ritirata, con un partito conservatore che resiste alle richieste di difendere l’indifendibile, e cioè il suo vecchio leader.

Significative in tal senso le parole che Kim Darroch, ex ambasciatore britannico a Washington, ha rilasciato al New York Times commentando la scelta del parlamento di arrivare ad una sospensione di 90 giorni: “La sua gravità suggerisce che la commissione aveva uno scopo più ampio nella sua decisione: quello di riaffermare l’importanza fondamentale della verità nella politica britannica“.

Al di là dell’oceano atlantico, la musica è totalmente diversa. Il partito dell’elefante, di cui Trump è stato leader e nelle cui file si è già candidato alle primarie per le prossime elezioni presidenziali, ha avuto e continua ad avere un atteggiamento completamente diverso nei confronti dell’ex Comandante in capo. Le voci critiche non sono certamente mancate, come quella dell’ex governatore del New Jersey Chris Christie e del senatore dello Utah Mitt Romney, ma sono molto solitarie. Anzi. Il rinvio a giudizio deciso questa settimana con l’accusa di aver trattenuto documenti riservati e di aver ostacolato la giustizia ha portato ad esempio non un signor nessuno, ma il presidente della Camera Kevin McCarthy ad affermare che il presidente Biden stia addirittura “armando” il Dipartimento di Giustizia per dare la caccia ai suoi nemici politici. Non esattamente un ramoscello d’ulivo, non un inno al rispetto bipartisan in nome della democrazia. Così come hanno fatto due altri candidati alle primarie repubblicane, Ron Desantis, governatore della Florida, e l’ex vicepresidente dell’era Trump, Mike Pence: entrambi si sono affrettati, alla convention del Partito Repubblicano della Carolina del Nord di venerdì scorso, a difendere Trump. Nonostante le primarie che inevitabilmente li vedranno sì contrapposti, ma a quanto pare più però contro l’amministrazione Biden che nel giudizio sull’ex presidente, ripetendo la strategia (fallimentare) di non attaccare il principale avversario nelle primarie che tennero quasi fino alla fine sia Marco Rubio che e Ted Cruz nel 2016.

Due uomini molto simili, due contesti molto diversi. Sullo scenario di una democrazia americana che appare, agli occhi di molti, ben più polarizzata e conseguentemente ben più fragile di quella britannica, dopo gli anni del trumpismo.

 

 

Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva