Il dramma dell'ergastolo ostativo
Dopo 33 anni tocca la mano della moglie e muore, tragedia e ferocia del 41 bis
Percorro il corridoio del reparto di pneumologia dell’ospedale San Paolo di Milano confuso tra i visitatori dei pazienti. Stanza numero 8. La porta è aperta. Scorgo il volto scarnito di mio fratello abbandonato sul cuscino. Sotto la mascherina dell’ossigeno si avverte il suo affannoso respirare. Sono trascorsi più di trent’anni dall’ultima volta che l’ho visto, ma i suoi tratti mi sono subito familiari come se da allora il tempo si fosse fermato. Per lui, da quel momento di 33 anni fa, si era già fermata la vita. Lo guardo e provo la sensazione di un violentissimo pugno allo stomaco e il mio respiro si ferma e si affanna insieme al suo. Vorrei varcare quella porta. Andargli incontro.
Abbracciarlo, prendergli la mano, dirgli: sono qua, mi vedi? Mi senti? Mi riconosci? Ma non posso. Il mio nome non è nella lista dei soggetti autorizzati dal magistrato a entrare per dargli un ultimo saluto. E poi non potrebbe vedermi, né riconoscermi, né rispondermi. Lo hanno restituito così alla famiglia: agonizzante, in stato di incoscienza, a un respiro dalla fine. Ma questa è la prassi normale adottata per i detenuti al 41 bis. La morte di mio fratello ha un nome: fibrosi polmonare; e ha un invincibile alleato: il 41 bis. Era da anni che quella fastidiosa tosse lo tormentava: colpa delle sigarette fumate in passato, dicevano i medici; un po’ di sciroppo al bisogno può bastare. Ma niente, di passare non ne voleva sapere e anzi con il tempo diventava sempre più insistente, con il fiato che si faceva più corto. Inutile tentare di rubare una boccata d’aria da qualche spiffero filtrato dalla finestra.
Al 41 bis le finestre sono coperte da paratie, gli spifferi si fanno pugnalate e l’aria si impasta di polverosa ruggine e cemento. Ventitré ore da trascorrere in cella e l’ora d’aria in un cubo dalle alte pareti ricoperte da una fitta rete. Anche il passeggio cominciava a diventargli pesante. Prima era un frenetico andare su e giù; ultimamente le soste per riposare si erano fatte più lunghe del tempo dei passi e l’ora d’aria si trasformava in un’ora d’affanno. Quando decidono di sottoporlo a una TAC la situazione è già irrimediabilmente compromessa: fibrosi polmonare, malattia incurabile, progressiva a rapida evoluzione. Meno di un anno di vita – in condizioni salubri normali e di assistenza medica adeguata – e l’unica speranza nel trapianto cuore-polmoni. Ventitré ore di cella, un ora nel cubo di cemento; solo lui e quelle mura, l’unico sostegno ai suoi passi sempre più infermi.
Occorre il supporto di una bomboletta d’ossigeno e ridurre i movimenti per risparmiare fiato. È la primavera dell’anno terminato da poco. Gli avvocati si premurano di presentare istanza al magistrato di sorveglianza: le condizioni di salute sono gravi; sussistono tutti i presupposti per il differimento della pena, anche nella forma degli arresti domiciliari, per consentirgli almeno di morire dignitosamente assistito dai propri cari in un ambiente adatto alle sue condizioni. È in carcere dal febbraio del 1990 senza interruzione; condanna all’ergastolo ostativo, 41 bis. Il magistrato di sorveglianza rigetta l’istanza dei difensori e trasmette gli atti al Tribunale. Intanto le sue condizioni si aggravano di giorno in giorno: respira sempre più a fatica, il supporto dell’ossigeno diventa costante; in carcere non si può che disporre delle bombolette della durata massima di due ore.
Notte e giorno non c’è tempo per il sonno né tempo per il riposo, ogni due ore serve nuovo ossigeno che lo tenga in vita e forse quella flebile speranza che un magistrato decida per tempo e gli consenta di accedere a una adeguata assistenza. Si disidrata, stenta a nutrirsi, diventa malfermo sulle gambe. Ma ha una data scritta sul calendario: 11 novembre 2022, l’udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza che dovrà decidere sulla sua scarcerazione è stata finalmente fissata. La gravità delle sue condizioni induce gli avvocati a riproporre istanze d’urgenza al magistrato di sorveglianza e solleciti di anticipo dell’udienza che diventano una corsa contro il tempo. Niente da fare. Ogni richiesta, ogni sollecito, cade nel vuoto. E l’11 novembre arriva, l’udienza si tiene, il tribunale si riserva la decisione. Ma poi anziché decidere, sposta il limite del tempo: un’altra udienza al 25 novembre per l’asserita necessità di acquisire ulteriori notizie e integrazioni.
Un’altra corsa contro il tempo. Le informazioni richieste arrivano prima dell’udienza, confermano la gravità delle condizioni, l’imminente pericolo di vita, l’incompatibilità delle sue condizioni con la detenzione, la possibilità di accoglienza in una struttura in cui poter essere assistito dai suoi familiari. Eppure il Tribunale riesce ancora a inventarsi un ulteriore rinvio. Questa volta il 27 gennaio. Nessuna motivazione sulle ragioni dello slittamento dell’udienza. Ma mio fratello l’avrebbe ancora avuto tutto questo tempo per vivere? E come avrebbe affrontato e superato le difficoltà della malattia nella solitudine e nell’abbandono in quella cella del 41 bis? Il sospetto, legittimo, è che la pavidità della magistratura di sorveglianza, non priva di buona dose di calcolato cinismo, abbia delegato al tempo la “soluzione” della vicenda. La casistica dei decessi dei detenuti al 41 bis del carcere di Opera, in casi analoghi e in ossequio alla medesima strategia dilatoria delle decisioni sulle istanze di scarcerazione (almeno sei nell’ultimo anno), ne dà conferma.
La legge in certi casi viene aggirata, elusa, non applicata per l’adesione a quel conformismo della “morale” secondo il quale certi detenuti, in specie i detenuti al 41 bis e i condannati all’ergastolo ostativo, non meritano neanche la pietas umana in punto di morte. Allora meglio non decidere. Dalla fissata udienza del 25 novembre in poi, i difensori di mio fratello, le cui condizioni di salute precipitavano, inoltravano istanze di sollecito di anticipazione della data di udienza, tra l’altro rinviata senza nessun motivo plausibile e nonostante l’urgenza del caso, che la magistratura di sorveglianza di Milano ha sistematicamente ignorato. Si sa, meglio non farsi succedere niente sotto le feste di Natale Il 24 gennaio scorso, l’ultima grave crisi respiratoria costringe il suo ricovero nel reparto protetto penitenziario all’interno dell’Ospedale San Paolo di Milano.
Sia chiaro: a chi immagina un ambiente simile a quello ospedaliero va subito detto che tutti i detenuti portati in quel reparto preferiscono la propria cella alla stanza ospedaliera: una tomba scavata nel cemento. Niente finestre, niente arredi e televisione, né voce umana. Il senso claustrofobico di solitudine e abbandono in quell’asettico buco senza uscite è più temibile della morte. Nonostante il ricovero nella struttura ospedaliera, la situazione precipita al punto da far decidere ai medici di attuare la terapia palliativa con sedazione del morente. È il 26 gennaio, manca un giorno alla udienza fissata in Tribunale. Una bravura ai magistrati di sorveglianza di Milano bisogna tuttavia riconoscerla: nel fissare l’udienza di rinvio hanno indovinato quasi al secondo le prospettive di vita rimaste a mio fratello. Ormai si poteva decidere, rispettare la forma, e lavare la coscienza: un provvedimento del magistrato di sorveglianza in via d’urgenza dispone il differimento della pena nella forma degli arresti ospedalieri, senza dimenticare, ovviamente, di richiamarne lo spessore criminale, i pericoli e la pericolosità emerse dalle informative delle varie dda dna e bla bla bla, con prescrizioni, come non allontanarsi dal reparto, non intrattenersi con pregiudicati che se non fosse una situazione tragica farebbero pure sorridere.
Solo il 27 gennaio il provvedimento viene eseguito, e mio fratello portato in un reparto ordinario dello stesso ospedale San Paolo. La corsa dei familiari per giungere in tempo per un ultimo saluto è fatta di aerei, taxi, telefonate alla ricerca di informazioni e notizie. La mattina del 28 solo la moglie riesce a rubare alla morte un attimo ancora della sua vita, un lampo di coscienza, una mano che tornava a stringersi dopo oltre 30 anni della separazione imposta dal vetro divisorio che impedisce qualsiasi contatto fisico ai detenuti del 41 bis. I figli, gli altri familiari “autorizzati”, si sono dovuti accontentare di vederlo agonizzante e ormai incosciente, o come me, attraverso uno sguardo rubato a quella porta socchiusa sul corridoio.
Tra la notte del 29 e le prime ore del 30 gennaio, la morte gli ha restituito la libertà e la dignità che il cinismo umano della gente perbene gli ha negato fino al suo ultimo agonizzante respiro. La sera del 30 hanno restituito ai familiari i suoi pochi effetti personali. Mentre ci avviavamo per il rientro, un corteo di auto della polizia penitenziaria ed elle altre forze dell’ordine scortavano Alfredo Cospito nel carcere di Opera. La cella lasciata da mio fratello ha trovato il suo nuovo ospite. Fortunatamente Alfredo non ha alcuna patologia irreversibile. La sua vita è una vita che può essere salvata, è una vita che deve essere salvata e non consente elusioni e pavidità, temporeggiamenti e richiami a valori di leggi che in verità non coincidono con i valori di civiltà che il nostro paese deve ancora tenere come unico e irrinunciabile principio da rispettare e salvaguardare. Il taxi arriva: lasciamo mio fratello con il dolore della perdita di un congiunto e l’amarezza di una verità conservata nei nostri cuori: la sua pena, la sua condanna, da uomo innocente per un reato che non ha commesso.
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