Lo “scherzo da prete” combinato, in quattro quattr’otto, al turismo invernale con la chiusura all’ultimo momento delle piste da sci non può passarsela liscia. Se il nuovo governo vuole marcare una discontinuità con quello precedente deve cominciare dalla gestione dell’emergenza sanitaria. Non è la prima volta che le autorità cambiano le carte in tavola in zona Cesarini, vanificando gli investimenti compiuti dagli operatori innanzi tutto per la sicurezza degli impianti e delle persone. È già successo all’inizio dell’estate con l’Alta Velocità, quando le disposizioni vennero cambiate la sera prima della loro entrata in vigore.

Poi è accaduto con le discoteche oggetto anch’esse di un ripensamento a riaperture avvenute, in un quadro di demonizzazione del turismo estivo per incrementare il quale i decreti del “ristoro” avevano stanziato fondi per incentivare le famiglie ad andare in vacanza. Infine vi è stata la mazzata sulle festività natalizie e di Capodanno, anche in questo caso invertendo autorizzazioni e prescrizioni a cui si erano scrupolosamente attenute decine di migliaia di attività economiche. È vero, il virus è imprevedibile e occorre riuscire a seguirlo nel suo micidiale percorso. È giusto e corretto attenersi a un criterio di precauzione, ma, per quanto sia difficile programmare, sarebbe opportuno evitare provvedimenti a singhiozzo e sincopati come quelli che vengono adottati (“contrordine compagni!”) con troppa disinvoltura.

È meglio individuare e scegliere stabilmente standard di prevenzione – prioritariamente rivolti alla tutela dei soggetti maggiormente a rischio – piuttosto che impiegare risorse sulla base di aspettative che, poi, vengono all’improvviso frustrate. Il contagio non è un terremoto, che cambia in pochi minuti e all’improvviso la realtà circostante. A pensarci bene, il paragone della pandemia a un guerra ha un fondamento di verità; bisogna riconoscere che gli strateghi che guidano l’azione di contrasto sono come quei generali che, durante la Prima guerra mondiale, mandavano all’assalto delle trincee nemiche e al massacro migliaia di soldati al solo scopo di conquistare qualche metro della terra di nessuno, che di lì a poco avrebbero dovuto abbandonare a seguito del contrattacco nemico. Forse è il caso di spiegare che la metafora si riferisce alle imprese che chiudono e ai lavoratori che restano disoccupati o che non trovano più uno straccio di occupazione.

Il paragone è calzante: per abbassare di qualche decimale di punto quell’indice che chiamano Rt si perdono miliardi (spesso anche perché si sbagliano i dati) con la chiusura delle attività, non si incassano le tasse e i contributi, e, di converso, si impiegano risorse importanti, ancorché inadeguate, in bonus, ristori e ammortizzatori sociali. Costringere a non lavorare un imprenditore che potrebbe cavarsela da sé, anche per i suoi dipendenti, dovendo poi sostituirne rispettivamente il fatturato e il reddito, non sembra essere un’operazione in grado di durare a lungo: l’azienda chiuderà, i lavoratori perderanno il posto, lo Stato non avrà alcun tornaconto delle risorse investite. Oggi, la gran parte di coloro che perdono il posto si possono definire “disoccupati di Stato”. E in un Paese che esibisce primati negativi per quanto riguarda il mercato del lavoro, è assurdo condannare per legge tante aziende a chiudere.

Per non parlare della scuola. Da tutti è indicata come la priorità delle priorità, perché abbiamo standard inadeguati alle esigenze della nuova economia dove avrà un ruolo decisivo la qualità del capitale umano. Il fatto è che di questo passo è dubbio che gli studenti più piccoli siano riusciti a mandare a memoria le tabelline, mentre quelli delle secondarie abbiano del tutto superato le difficoltà nel corretto uso della lingua italiana. In una carriera scolastica che si esaurisce spesso in una decina di anni, le attuali coorti ne hanno già sprecati almeno due, sottoposti alla finta della “docenza a distanza” (anche quando tale esperienza è stata positiva ciò è avvenuto a “macchia di leopardo”) e risarciti con una sostanziale promozione d’ufficio. Analogo discorso vale per la pubblica amministrazione a cui si chiede un contributo essenziale a sostegno del sistema delle imprese, una sburocratizzazione, una semplificazione delle procedure, senza rendersi conto che, per poter adempiere a queste funzioni, occorrerebbe, in primo luogo, che gli uffici fossero aperti.

Nella prima riunione del Consiglio dei Ministri Mario Draghi ha messo le carte in tavola: vaccinazione, lavoro, economia, scuola e ambiente sono le priorità. Non si tratta di capitoli separati ma di obiettivi che si condizionano reciprocamente nel senso che ognuno di essi deve essere affrontato in relazione agli effetti che possono determinarsi sugli altri. Ovviamente, non si chiede di abbassare la guardia nella tutela della salute, ma di cercare un migliore punto di equilibrio tra le diverse esigenze, perché le ragioni sanitarie non possono continuare a essere l’unica variabile indipendente in questo difficile passaggio. Va rimessa a punto l’analisi e di conseguenza la strategia. All’inizio della crisi è passato il messaggio (“andrà tutto bene”) del colpo di maglio (il lockdown duro e puro) che fosse in grado di sconfiggere il virus impedendogli di circolare.

Quella che hanno chiamato la “seconda fase” (ma che era soltanto una ripartenza della prima e unica) ha smentito tale impostazione. Tuttavia, essendo alle viste l’arrivo di vaccini, la linea generale ha mutato prospettiva: si tira avanti con un colpo al cerchio e uno alla botte fino a quando saremo protetti dalla vaccinazione di massa e avremo conquistato la cosiddetta immunità di gregge. Così il piano delle vaccinazioni è divenuto, correttamente, una assoluta priorità. Ma ormai ci siamo accorti che occorreranno tempi lunghi con risultati incerti: come ha scritto il Wsj «con i parametri attuali entro il 2021 sarà vaccinato il 10% della popolazione mondiale che diventerà il 20% nel 2022». Il coronavirus è tra noi ed è destinato a rimanervi, perché l’impegno produttivo e organizzativo è comunque complesso mentre il virus evolve e va seguito e combattuto nelle sue varianti, sempre più insidiose. Si riuscirà certamente a fare meglio, a predisporre vaccini per la prevenzione e una farmacologia adeguata alla cura (è questo ultimo l’obiettivo più importante per “convivere” con una malattia, con la quale è possibile, nel medio periodo, stipulare solo un armistizio, non certamente festeggiare una vittoria); ma è indispensabile adottare una strategia più flessibile e realistica nell’impegno al contenimento.

I dati dell’economia reale continuano a mettere in evidenza il permanere di una non domata vitalità che emerge in modo incoraggiante e imprevisto ogniqualvolta si allentano i ceppi delle misure di mitigazione. Fino a quando e per quanto tempo si potranno affrontare le grandi questioni (indicate da Draghi) del lavoro – e quindi dei giovani e delle donne – dell’economia e della scuola, se queste sfide continueranno a essere affrontate con una palla di piombo al piede o un braccio legato dietro la schiena? Procedendo – come si giocava da bambini – a “zoppo galletto” alternando periodi di cauta apertura seguiti da improvvise chiusure (a seconda del colore della regione) e dall’annuncio (e, se possibile, l’erogazione) di ristori compensativi.

Non sarebbe inutile, poi, cominciare a fare i conti con il virus del panico attraverso la comunicazione, classificando, il più possibile, gli effetti del covid-19, compresi i decessi, in un contesto di relatività fuori dalla logica del “male assoluto” e dalla sua identificazione con la morte. Quanti sono gli italiani che hanno abbandonato, nel complesso, questa “valle di lacrime” nel corso del 2020? Basterebbe accedere ai siti dell’Istat e dell’Istituto Superiore della Sanità per imbattersi nella relativa tabella. E farsene una ragione.