Vedo e non vedo, i nomi ci sono ma non si dicono: quelli dei politici, scritti a caratteri sempre più grandi, sono le insegne illusorie e posticce che richiamano verso negozi svuotati. Dove la merce delle grandi idee si è fatta rara ma i venditori più rumorosi. Più importanti: riassuntivi, perfino sostitutivi della politics stessa. Ne abbiamo parlato con il professor Mauro Calise, ordinario di Scienza politica presso l’Università di Napoli Federico II, direttore di Rivista di Digital Politics ed autore di autorevoli studi di comunicazione politica. Quando lo raggiungiamo, non nasconde la delusione per il passo indietro di Elly Schlein che sul suo nome nel simbolo – dopo aver visto scatenarsi la tempesta in casa dem – ha fatto un passo indietro.

Alla fine Elly Schlein ha deciso di non mettere il suo nome nel simbolo. Fa bene?
«È un peccato. Sarebbe stata una scelta coraggiosa anche nell’interesse del partito. Sarebbe stato bello vederla candidata in tutti e cinque i collegi anche con il nome del partito per vedere di nascosto l’effetto che fa».

“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, la conclusione del Nome della Rosa di Umberto Eco. Alla fine rimangono solo i nudi nomi?
«I nomi sono diventati importanti perché siamo in un’epoca di mediatizzazione fortissima della politica. La politica si sta adeguando alla media logic».

E non sono importanti per la fidelizzazione con gli elettori?
«Gli elettori sono sempre più volatili, più disamorati. La politica ha più problemi che risorse. E dopo la fine dei grandi blocchi ideologici, sono rimasti i nomi dei politici a fare da riferimento. Ma qui siamo ancora alla superficie del problema. Perché il fenomeno sta nella trasformazione organizzativa della politica, che si è andata sempre più verticalizzando».

La personalizzazione è funzionale al nuovo modello di partito, di politica?
«È funzionale a un contesto nel quale contano più le decisioni. Ha due facce: una di comunicazione e una di gestione. Quando questi due processi si incontrano, c’è la personalizzazione della politica contemporanea».

Ha iniziato tutto Berlusconi. Ha saputo interpretare lo spirito del tempo o lo ha anticipato?
«Berlusconi ha interpretato questo Zeitgeist perfino un po’ tardi rispetto all’America, dove la politica era diventata “personalistica” già da tempo. Lei tenga sempre presente organizzazione e comunicazione: Berlusconi aveva Mediaset, per la comunicazione, e Publitalia per l’organizzazione. Grazie a questi due pilastri parte da subito in grande stile. La genialità di Berlusconi sta nell’inventare un brand di successo, Forza Italia, al centro di un progetto che ha tutta la macchina incentrata sulla fedeltà al leader».

Il problema della nostra politica è che è evoluta poco, dopo Berlusconi.
«Fubini oggi fa notare che il sistema di comando ministeriale e para-ministeriale è rafforzato, c’è una spinta al vertice e al potere di Palazzo Chigi ancora diverso da prima. Altra spia della personalizzazione della politica. Giorgia Meloni sta proseguendo nel solco di una spinta nata con l’idea originaria del centrodestra italiano».

Contro Berlusconi si misurò Veltroni, che nel 2008 mise per primo il suo nome nel simbolo.
«Veltroni però non aveva la macchina per sostenere quella spinta leaderistica. E senza una macchina coerente, con un partito oligarchico e correntizio, fu un esercizio inutile».

Allora anche per Elly Schlein sarebbe inutile?
«Eh no, io speravo invece che avesse più coraggio. Adesso sono passati anni e c’è il tema di una donna contro un’altra donna, era l’occasione giusta. Perché altrimenti la logica delle correnti e degli oligarchi nel Pd regnerà per sempre».

Questo verticismo esasperato dove ci porterà?
«Il verticismo è incontrovertibile, non si torna indietro. Il problema della personalizzazione non si ferma. Trump si è ripreso tutto il partito repubblicano. In Argentina hanno eletto uno che ha fatto la campagna con la motosega. Le figure dei leader che personalizzano, vincono».

Non è il migliore dei mondi possibili…
«E non sto dicendo che sia un bene, dico che è così. La realtà è questa. La comunicazione funziona attraverso dinamiche di personalizzazione. E questo è funzionale ad un’epoca in cui la società mediatizzata richiede una serie di protagonismi sulla scena. E indietro non si torna».

Non ha personalizzato abbastanza, Renzi? Ieri ha detto: «Nel simbolo noi mettiamo le idee, altri il cognome».
«Sbaglia, Renzi. Avrebbe dovuto mettere il suo nome. Non è un caso se Renzi appena salito al governo non ha saputo incidere sul partito come avrebbe potuto. Intendiamoci: ha ringiovanito e rinnovato il gruppo parlamentare. Ha dato vita a un governo giovane che ha governato bene.
Ha fatto operazioni importanti. Ma è rimasto schiacciato dalla dinamica delle correnti, non si è riuscito a liberare dal peso del vecchio Pd. Anche D’Alema in un certo momento aveva pensato di fare la stessa operazione di Renzi: impadronirsi del partito attraverso il governo. Perché? Perché personalizzare una struttura oligarchica e coriacea come quella del Pd è complicato. Ma anche D’Alema come Renzi ha finito per andare a sbattere contro il proprio partito. E su questo, Meloni non corre rischi».

Perché?
«Perché la struttura di Fratelli d’Italia coincide con Giorgia Meloni, con il suo staff e perfino con la sua famiglia. Tutto dipende da lei, discende da lei. Dunque non ha nemici interni».

Calenda, dal canto suo, insiste per tenere il suo nome alto nel simbolo. Fa bene?
«Fa benissimo. È l’unica cosa che ha, il suo nome. Ha una macchina molto leggera, impalpabile. Se lei gira l’Italia trova quattro gatti, in Azione. Eppure con quattro gatti, ha il 4%. Significa che è tutto sul leader, che il merito del consenso è concentrato nelle parole del leader, nelle sue interviste in tv, nei suoi tweet. Quindi è funzionale tenere alte le insegne personali».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.