Con la sveglia di Trump scavalchiamo il veto
Europa a 26, addio veto e Ungheria isolata con un allegato: il precedente che può cambiare il processo decisionale dell’Unione

“26 is the new normal”. È il messaggio che circola tra i palazzi Ue a Bruxelles. Il Consiglio europeo, di ieri e giovedì, è terminato con una dichiarazione congiunta, approvata da tutti e 27 gli Stati membri, ma con l’aggiunta di un allegato voluto soltanto da 26 degli stessi, in cui l’Unione ribadisce il suo sostegno all’Ucraina.
Per la seconda volta, l’Ungheria di Orban si sfila dall’appoggiare Zelensky. Era già successo il 6 marzo e, proprio in quella occasione, il resto del Consiglio aveva deciso di forzare le sue stesse regole. Di prassi, infatti, non è previsto che i Capi di Stato e di Governo se ne tornino a casa senza aver diramato una dichiarazione congiunta e condivisa all’unanimità. In Consiglio vige il veto, tale per cui basta un singolo no per bloccare una qualsiasi iniziativa di interesse comunitario. Quello di un documento allegato è un escamotage per uscire dall’impasse. In un momento così delicato, Bruxelles è disposta a tutto pur di confermazione la propria alleanza europea a Kyiv. Anche di andare contro le procedure. Con l’avvio dei negoziati, le telefonate Washington-Mosca e le difficoltà al fronte, l’Ue butta il cuore oltre l’ostacolo.
Budapest così si condanna all’auto-isolamento. «Fatti suoi», commentano a Bruxelles. La posizione ungherese continuerà a essere una spina nel fianco dell’Unione – in Parlamento gli euroscettici hanno più spazio di manovra – ma il suo gioco è stato ormai scoperto. Vista la situazione, nemmeno la Slovacchia di Fico se la sente di stare con Orban. Almeno sul dossier Ucraina. Troppo marginale è la strada del leader ungherese per essere seguita da un Paese che, in ogni caso, beneficia di gran lunga dei fondi dell’Unione. A sua volta, l’Europa che passa da 27 a 26 diventa la normalità. Questo fa pensare che il Consiglio potrà ricorrere allo stesso espediente qualora dovessero crearsi altri colli di bottiglia in cui qualche “unhappy few” dovesse mettersi di traverso.
Il piano Readiness 2030 per la difesa comune, l’unione dei capitali, le politiche green. Figuriamoci se questi o altri dossier non creeranno mal di pancia a singoli membri. Possibile che già le stesse misure contro i dazi di Trump non raccoglieranno l’ok unanime dal Consiglio. Sono troppe le divergenze perché ci sia unità d’azione verso una Washington che non si capisce più se sia ancora alleata, partner o cos’altro. Ciononostante, chiunque in futuro dovrà fare attenzione e a come gioca le sue carte. Votare no, seguendo il proprio istinto e per tener a bada i malumori della propria maggioranza, potrà passare più come un tuffo in una piscina dove non si è controllato se ci sia l’acqua, anziché un beau jeste per l’interesse nazionale. L’opposizione in Consiglio andrà ragionata e intessuta in una solida alleanza. D’altra parte, la mossa va accolta con favore.
Il veto in Consiglio è uno degli ostacoli in cima alla lista delle riforme da fare per aver un’Europa più snella e in grado di competere contro il resto del mondo. Poco importa se il problema viene risolto prima con la pratica e poi con la teoria. Anzi, se davvero Bruxelles decidesse di imboccare questa strada, vorrebbe dire che gli intoppi burocratici sono più una suggestione che la realtà delle cose. È quasi ridicolo dirlo, ma era proprio Spinelli che indicava la necessità di un’Europa unita con un processo decisionale rapido e una governance sovranazionale non vincolata dai singoli membri. Altrettanto, per assurdo, vien da ringraziare Trump, che con i suoi ceffoni, ci sta facendo uscire dal torpore. Almeno così sembra. Se poi a qualcuno non dovesse piacere l’Europa a 26, c’è sempre il Regno Unito pronto a tornare in campo e far numero.
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