Francesco Cossiga è stato senza dubbio uno degli uomini più importanti e rappresentativi della politica italiana. Ottavo presidente della Repubblica, presidente del Consiglio e del Senato, ministro dell’Interno durante i complicati giorni del sequestro Moro. Gli ultimi anni al Quirinale, scopriremo perché, gli valsero l’appellativo di “picconatore”.
La storia di Cossiga parte da lontano, dalla sua amatissima Sardegna. Nasce a Sassari, è cugino di secondo grado di Enrico Berlinguer. Brucia le tappe: si diploma a 16 anni e si laurea in Giurisprudenza appena diciannovenne, ottenendo dopo poco tempo la cattedra di Diritto costituzionale all’Università di Sassari. Si iscrive ancora minorenne alla Democrazia Cristiana. Diventa deputato prima di compiere 30 anni ed è il più giovane sottosegretario (alla Difesa) nel terzo governo Moro.

Per comprendere al meglio la figura di Cossiga è necessario ricordare che il suo impegno politico si sviluppa durante gli anni della Guerra fredda. Cossiga è un atlantista convinto e vuole dare il suo contributo al rafforzamento del blocco occidentale. Ammette, anzi rivendica con orgoglio, di aver preso parte ad una organizzazione paramilitare, denominata Gladio, nata (in accordo con i servizi di intelligence americani) con lo scopo di scongiurare un’eventuale invasione dei comunisti sovietici. Questo è solo uno degli aspetti contraddittori, se così vogliamo definirli, che caratterizzano la vita di Cossiga.
Il momento più difficile della sua carriera politica ha una data ben precisa: 16 marzo 1978. Andreotti è ancora presidente del Consiglio e Cossiga viene confermato al Viminale. Quel giorno, come sappiamo, Moro viene rapito dalle Brigate Rosse; per Cossiga iniziano 55 giorni di inferno. Le lettere di Moro dalla prigione delle BR a lui indirizzate non fanno che aumentare la pressione sul ministro dell’Interno, impotente difronte alle richieste, per qualcuno irricevibili, dei brigatisti. Cossiga sapeva che la vita del suo amico Aldo Moro, nonché presidente della DC e uomo politico tra i più apprezzati nel Paese, dipendeva in gran parte dal suo operato. Il ritrovamento del cadavere di Moro il 9 maggio in via Caetani ne sancisce il fallimento. Cossiga si dimette due giorni dopo.

Il suo destino sembra segnato. Lui stesso pare non avere più le forze per riprendersi, provato anche nel fisico da quanto successo.
«Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro».
Queste le parole emblematiche riferite al giornalista Paolo Guzzanti. Chi pensava che la stella del politico sardo avesse intrapreso ormai un’irreversibile fase discendente dovette però presto ricredersi. Soltanto un anno dopo infatti, nell’estate del 1979, Francesco Cossiga giura da presidente del Consiglio. Dopo la breve esperienza a palazzo Chigi, coincisa anche con la misteriosa strage di Ustica (tornata di attualità nei giorni scorsi dopo le dichiarazioni di Amato), Cossiga trascorre qualche anno da semplice deputato, senza ricoprire incarichi di governo o di partito. Arriviamo così ad un’altra estate, quella del 1983, che vede Cossiga assumere la seconda carica dello stato diventando presidente del Senato. Per tutta la sua vita Cossiga è riuscito a scalare i livelli, e molto velocemente. Non si smentisce neanche in questa occasione, perché in due anni passa dalla seconda alla prima carica dello Stato. Nel 1985 è lui a prendere il posto di Sandro Pertini sul colle più alto, diventando così l’ottavo presidente della Repubblica.

Occorre dividere il periodo di Cossiga al Quirinale in due fasi distinte; se i primi cinque anni trascorrono in relativa tranquillità, gli ultimi due del settennato registrano un drastico mutamento del comportamento del democristiano di Sassari. Probabilmente la fine della Guerra Fredda e quindi della logica dei due blocchi (sulla quale si era fondata l’impostazione della politica italiana fino a quel momento), fu una delle principali cause dei continui interventi del presidente Cossiga. Questi cercava di scuotere dalle fondamenta un sistema che vedeva immobilizzato e non pronto alle grandi trasformazioni che di lì a poco lo avrebbero interessato. Lo fece attraverso esternazioni forti, colorite, non usuali per un capo dello Stato: le famigerate “picconate”. Memorabile il discorso ((tutt’altro che tradizionale) di fine anno del 1991, il più breve della storia repubblicana. Qualche giorno prima, in Parlamento, era stata presentata addirittura una richiesta di messa in stato di accusa nei suoi confronti (poi archiviata).
Qualche mese dopo Cossiga però si dimette per davvero, in anticipo di due mesi rispetto alla scadenza del mandato presidenziale. Il 25 aprile del 1992 annuncia in diretta televisiva le sue dimissioni. Il colpo di scena finale, un gesto forte e simbolico, di protesta e di liberazione (forse non a caso avvenuto il 25 aprile):
«C’è chi approverà il mio gesto, c’è chi questo gesto non lo approverà; spero che tutti lo consideriate un gesto onesto di servizio alla Repubblica. Ai giovani io voglio dire però di amare la patria, di onorare la nazione, di servire la Repubblica, di credere nella libertà e di credere nel nostro Paese».

Con queste parole Cossiga mette fine a una delle presidenze più tormentate della Repubblica.
Nei suoi anni da senatore a vita Cossiga, come è nel suo stile, non rimane a guardare. Lascia la DC e fonda un nuovo partito (l’Unione Democratica per la Repubblica, UDR). Mi piace ricordare infine, fra le varie collaborazioni giornalistiche, quella che Francesco Cossiga ebbe proprio con questo giornale, per il quale scrisse attraverso lo pseudonimo di Mauro Franchi.
Cossiga muore a 82 anni a Roma, il 9 agosto del 2010, lasciando un segno indelebile nella vita politica italiana e la sensazione di non essersi per nulla annoiato durante la sua esperienza terrena.

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Nato a Cosenza 27 anni fa, vive a Roma dal 2015. Ha lavorato come giornalista tirocinante presso Mediaset RTI, nella redazione politica di News Mediaset (Tg4, StudioAperto, TgCom24). È laureato in Filologia Moderna alla Sapienza e ha conseguito il Master in Giornalismo radiotelevisivo con Eidos Communication. Si occupa di giornalismo politico. Redattore di Radio Leopolda, collabora alla Camera dei deputati. Ha scritto un libro su Giulio Andreotti. È fortemente interista, ma ha anche dei difetti