Il Consiglio europeo dei Ministri del lavoro ha approvato un accordo provvisorio per le nuove norme riguardanti la tutela del lavoro dei rider. Il processo si era fermato all’inizio dell’anno per l’opposizione di Francia e Germania. Il settore riguarda circa 28 milioni di persone in Europa (secondo i dati citati dalla Commissione per il 2022) che dovrebbero raggiungere i 43 milioni del 2025. I Gig worker sono i lavoratori la cui organizzazione del lavoro (e non solo) è collegata e implementata da una piattaforma digitale. La mediazione per arrivare all’accordo esclude gli autisti (i tassisti di piattaforme come Uber e altre fattispecie) e prevede un rinvio per gli aspetti più controversi alle normative nazionali. La legge si concentrerà principalmente sui lavoratori che svolgono attività di consegna o trasporto tramite piattaforme digitali. I tassisti sono stati ritenuti parte di un settore tradizionale e pertanto già regolamentato anche se, specie noi italiani, sappiamo quanto il vecchio sistema normativo e di “licenze” strida sempre di più con le vere necessità del trasporto pubblico locale. Più in generale, lo scontro, non solo in Europa, su queste nuove forme di lavoro riguarda la valutazione se questi lavoratori possono essere considerati lavoratori dipendenti o come accade frequentemente lavoratori autonomi. Nel primo caso si applicano i contratti collettivi. Nel secondo caso la situazione si complica perché si applicherà un regolamento aziendale (unilaterale) che in Europa considera 5 milioni di Gig worker sostanzialmente “lavoratori autonomi”.

La versione del testo su cui era saltato l’accordo prevedeva la definizione a livello europeo di 5 criteri (dai limiti massimi sulla quantità di denaro che i lavoratori possono ricevere, alle restrizioni alla libertà di organizzare il lavoro sino ad alcune norme comportamentali). Se almeno due criteri su cinque avevano soddisfazione, il rapporto lavorativo poteva essere classificato come dipendente subordinato. La chiarezza del quadro giuridico è sempre un valore. La mediazione raggiunta grazie al lavoro di Elisa Gualmini e Nicolas Schmit prevede che i governi degli Stati Ue dovranno normare a livello nazionale per dare maggiore chiarezza a questa classificazione. L’obiettivo deve correggere lo squilibrio di potere dell’azienda (tramite la piattaforma) e la persona che svolge il lavoro. In sostanza l’onere della prova che il rapporto contrattuale non è configurabile come lavoro dipendente, spetterà all’azienda. Uno degli elementi più interessanti riguarda, sulla scorta di quanto anche l’Ai act prevede, una maggiore trasparenza e affidabilità dell’utilizzo degli algoritmi. Le aziende saranno obbligate a prevedere una supervisione umana dei sistemi oggi automatizzati. Del resto è la precondizione per consentire ai lavoratori di contestare tali decisioni relative a molti aspetti: dall’organizzazione del lavoro fino alla chiusura e la sospensione degli account. Non potranno “controllare” e utilizzare dati sullo stato emotivo o psicologico dei dipendenti. Ad esempio, non si potranno utilizzare strumenti di intelligenza artificiale per prevedere se i lavoratori intendono aderire a un sindacato o scioperare. Sarà garantita la portabilità dei dati al momento del trasferimento del lavoratore da una piattaforma all’altra. Sono aspetti che avranno bisogno di una normativa nazionale e di contratti. Superando le sciocchezze che spesso si leggono e che scaricano le responsabilità sugli “algoritmi” deresponsabilizzando gli umani che ne sono committenti.

Nel nostro paese i rider che lavorano con cadenza periodica sono circa 30.000 ma i Gig worker sono molti di più. La normativa è poco chiara, tra sentenze di tribunali che sostengono i presupposti perché sia riconosciuto lavoro dipendente vi sono due riferimenti contrattuali: un contratto collettivo nazionale ma sottoscritto dalla sola Ugl con Assodelivery nel 2020 e un Contratto Aziendale di Just Eat con Cgil Cisl Uil, che però vale solo per 1/3 dei dipendenti dell’azienda. Gig workers è stato tradotto in Italia come “lavoretti”, ovvero attività a cui si dedica un tempo parziale della giornata e della settimana. Per molti altri rappresentano l’attività principale. Riguarda in molti casi persone, anche over 50 espulse dal mercato del lavoro e marginalizzate dall’assenza di qualsiasi politica attiva del lavoro. La sfida principale è stanare il finto lavoro autonomo che preclude da ogni diritto, ma anche l’assimilazione a vecchie categorie di lavoratori dipendenti lascia scoperte troppe lavoratrici e lavoratori. La realtà è che l’autostrada bicolore con cui dividiamo il lavoro, per cui tutto il lavoro che non ha vincoli di subordinazione viene definito autonomo è sempre meno rappresentativa dal punto di vista giuridico, contrattuale. Da tempo sostengo la necessità della costruzione di una nuova corsia in cui descrivere e dare rappresentanza e tutela al lavoro collegato alle piattaforme (platform workers). Mi auguro che a livello europeo e nazionale si dia spazio alla contrattazione per dare effettività all’idea che abbiamo di prospettive del lavoro dignitoso ma che si parta da una discontinuità. Bisogna identificare alcuni “diritti sociali” (minimi salariali, riposi, maternità, etc.) che devono essere riconosciuti indipendentemente dal contratto di lavoro (full-time/part/time, dipendente/autonomo) e dalla sua durata. La pretesa di utilizzare vecchi contenitori con le nuove forme di organizzazione del lavoro è sempre meno efficace: ci salva la coscienza ma lascia sole e senza tutele le persone. In fondo chi immagina un lavoro senza regole trova i migliori alleati proprio in chi è rimasto dal ‘900 ancora con gli occhi bendati. Il lavoro è il principale terreno di sfida e dare cittadinanza al nuovo lavoro nelle battaglie riformiste è urgente e necessario.