«Fu un colpo veramente che … Minchia Salvatore te l’ha combinata …. Salvatore …». È Totò Riina che parla, e lo fa riferendosi all’attentato di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone. Poi aggiunge: «Salvatore … il piccolo cosi…si è messo a fare… ride … Minchia si è messo a fare … se sapevo fare il costruttore. Ti chiudo là dentro … anche per questo è successo, è successo … è successo». Sono le intercettazioni del 2013 di quando il “capo dei capi” era al 41 bis. Sono le sue parole dove ammette la responsabilità della strage, ma soprattutto si intravvede il motivo già cristallizzato nelle sentenze di Capaci e Capaci bis: vendetta per l’esito del maxiprocesso (Riina ne parla diffusamente durante l’ora d’aria al 41 bis) e “cautela preventiva” per quanto riguarda l’indagine mafia – appalti.

La strage avvenuta trent’anni fa, -nella quale furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie e collega Francesca Morvillo, la scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani – è uno dei più gravi episodi delittuosi della storia italiana. È rimasta scolpita nella memoria collettiva e ha segnato uno dei momenti più drammatici della strategia del terrorismo mafioso, ma anche un punto di svolta nella coscienza civile del Paese e nell’azione dello Stato contro la criminalità organizzata. Questa impresa criminosa, che per “Cosa Nostra” doveva rappresentare l’espressione della massima potenza, costituì, in realtà, l’inizio della fine di un’epoca nella quale la mafia dei “corleonesi” poteva contare su un solido rapporto di alleanza e cointeressenza con numerosi settori del mondo sociale, dell’economia e della politica.

L’attentato si verificò il 23 maggio 1992, alle ore 17.56, per effetto di una potentissima e devastante carica di esplosivo, collocata sotto la carreggiata 87 dell’autostrada A/29, presso il km 4 +773 del tratto Punta Raisi-Palermo, in prossimità di Capaci. A metà strada tra l’aeroporto e la città. Gli effetti dello spostamento d’aria provocato dallo scoppio dell’esplosivo furono registrati dai sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) attraverso un aumento di ampiezza del segnale ad alta frequenza avente la forma tipica dell’esplosione. I primi soccorritori ebbero modo di constatare che tutti gli occupanti della Fiat Croma di colore bianco erano in vita: Francesca Morvillo respirava ancora, pur se priva di conoscenza, mentre Giovanni Falcone mostrava di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli venivano dai soccorritori. Tuttavia, malgrado gli sforzi profusi da costoro, e poi dai sanitari, entrambi i magistrati spirarono in serata per le emorragie causate dalle lesioni interne determinate dall’onda d’urto provocata dall’esplosione.

Tutte le sentenze riguardanti la strage di Capaci, hanno individuato un movente ben preciso. Sono diversi i passaggi cristallizzati nelle motivazioni. C’è quello di Giovanni Brusca che, nelle udienze degli anni passati, disse che, in seno a Cosa Nostra, sussisteva la preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore Nazionale Antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente la gestione illecita degli appalti. C’è quello del pentito Angelo Siino, che sosteneva che le cause della sua eliminazione andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”. Difatti – si legge nelle sentenze- in Cosa Nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare» (pag. 74, ud. del 17 novembre 1999).

In maniera del tutto pertinente al tema, Siino ha rievocato l ’esternazione pubblica di Falcone, avente ad oggetto il fatto che la mafia era entrata in Borsa; dichiarazione che aveva mandato su tutte le furie Antonino Buscemi, il quale, sentendo quelle parole, gli aveva manifestato la convinzione che il magistrato avesse compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi «c’era effettivamente Cosa Nostra». Senza parlare del pentito Nino Giuffrè che parla esplicitamente del rapporto mafia- appalti e di come mise in allarme tutta Cosa Nostra e il mondo politico – imprenditoriale. Da una parte la “pericolosità” di Falcone per quell’indagine, dall’altra l’isolamento da parte di un gruppo consistente della magistratura stessa. Il giudice Antonio Balsamo, nelle motivazioni del Capaci-Bis, scrive che alla eccezionale statura professionale e intellettuale di Falcone non faceva riscontro, purtroppo, un impegno in suo favore di tutte le forze sociali e di tutte le realtà istituzionali, come sarebbe stato logico attendersi in un momento nel quale la sfida mafiosa era particolarmente elevata.

«Il contesto descritto dalle fonti di prova esaminate – scrive duramente il giudice Balsamo – è, invece, quello di una convergenza, in parte dimostrata e in parte soltanto ipotizzata (sia pure sulla scorta di elementi oggettivi), tra forze mafiose e forze esterne; una sinergia che si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone». Ed è proprio alla base di questa campagna di delegittimazione che vi era una precisa consapevolezza del pericolo che l’attività di Giovanni Falcone rappresentava non solo per “Cosa Nostra”, ma – aggiunge sempre Balsamo – «anche per una molteplicità di ambienti economico-politici abituati a stabilire rapporti di reciproco tornaconto con l’organizzazione criminale, a partire dal settore degli appalti e delle forniture pubbliche». Nel corso del processo Borsellino Quater, quello che svelò il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio, ritorna come oggetto il dossier mafia appalti redatto dagli allora Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno su impulso di Falcone stesso.

Ebbene, di particolare rilevanza, è stata la testimonianza dell’ex guardasigilli Claudio Martelli. I fatti riguardano quando Falcone cominciò a lavorare con lui al ministero della giustizia. Nell’estate del 1991, nel pieno del segreto istruttorio, l’allora procuratore capo Pietro Giammanco inviò il plico del dossier mafia appalti non solo al ministero della giustizia, ma anche al Presidente della Repubblica e a quello del Consiglio. Falcone si arrabbiò. Martelli, durante l’udienza del Borsellino Quater, riferisce le sue parole: «Ma come è possibile? Quando stavo alla Procura e questo materiale avrebbe richiesto degli approfondimenti pazienti, accurati e questo non mi è stato consentito di farlo dal mio superiore? Dopodiché io non ci sono più e lui lo manda sui tavoli dei politici più importanti del Paese?». Il resto della storia la racconta Liliana Ferraro, recentemente scomparsa. Oltre ad essere legata a Falcone da una sincera amicizia, lavorava con lui nell’ufficio del ministero. Falcone le disse di chiudere il plico del dossier e rispedirlo immediatamente al mittente. Contestualmente le dettò due note, una indirizzata al Csm e l’altra alla Procura di Palermo.

Quest’ultima fu firmata da Martelli e inviata all’attenzione di Giammanco. La lettera è del 23 agosto 1991. Poco tempo prima la procura chiese la custodia cautelare per soli cinque soggetti su una posizione di 44 persone attenzionate. Ci furono polemiche, perfino Falcone – così testimoniò a verbale sia Martelli che la giornalista Milella – si indignò dicendo che «hanno voluto salvare delle persone». Per la prima volta un giornale, Il Riformista, rende pubblica la lettera. «Nel rilevare la singolarità dell’inoltro, con appunto privo di sottoscrizione e di data, di atti coperti da segreto – si legge in un passaggio della nota indirizzata al capo procuratore di Palermo -, per parte mia posso solo esprimere l’avviso che tutte le indagini necessarie ed opportune devono essere prontamente ed efficacemente svolte, con riguardo ad ogni aspetto, incluse le eventuali responsabilità impegnate in attività politiche».

La lettera, ricordiamo, è stata preparata dalla Ferraro sotto dettatura di Falcone. A tal proposito, lei racconta che Borsellino – esattamente il 28 giugno 1992 in aeroporto – le disse di rievocargli in maniera approfondita quell’episodio. Si, perché Falcone stesso ne aveva già parlato con lui. «Loro due – racconta la Ferraro al processo Borsellino Quater – ne avevano parlato, perché un giorno che loro stavano parlando a telefono, Paolo era appena arrivato a Palermo e Giovanni era a Roma, io ero entrata nella stanza… nell’ufficio di Giovanni e Giovanni gli aveva detto: “Ecco, anche Liliana, per quel poco che ha visto, ha capito che era una cosa anomala e che non doveva essere inviata al Ministero di Grazia e Giustizia”».