L’avvocato Francesco Petrelli, già Segretario dell’Ucpi e attualmente direttore della rivista Diritto di Difesa, torna a discutere dei temi più attuali di politica giudiziaria che hanno interessato il Paese in questo ultimo anno.

La rivista da Lei diretta si pone l’obiettivo di essere un luogo di incontro e confronto tra avvocatura, accademia e magistratura. In questo clima, con il nuovo presidente Anm, è possibile riaprire un vero dialogo? E su quali basi e a partire da quali condizioni?
La crisi pandemica con i suoi rimedi emergenziali non ha solo messo in tensione tutti i valori fondamentali del giusto processo ma è anche venuta a cadere in un momento di difficoltà sistemica per la giustizia penale e di crisi profonda per la magistratura e la sua rappresentanza (Csm e Anm) e questo ha reso difficile il dialogo per tutti. Noi crediamo che la crisi possa essere una opportunità di cambiamento e di modernizzazione del processo e fare della tecnologia uno strumento a favore delle garanzie. E su queste basi il confronto fra avvocatura, accademia, politica e magistratura è aperto. La condizione è che non si confonda l’opportunità con l’opportunismo e non si approfitti dell’emergenza per stabilizzare quelli che sono rimedi straordinari facendo retrocedere il nostro sistema di valori e di garanzie.

Secondo Lei è stato fatto abbastanza dalla magistratura per rispondere adeguatamente allo scandalo Palamara? A qualcuno non piace che venga definito “capro espiatorio”. L’Anm rivendica di aver fatto molto per colpire il sistema. È d’accordo?
Mi pare che di recente il Presidente di Anm abbia proprio fatto riferimento alla necessità di evitare di fare del dott. Palamara il capro espiatorio di una degenerazione che ha cause ben più profonde e strutturali e che non possono certo essere ascritte né a deviazioni etiche di tipo personale e neppure ad una deriva del sistema correntizio. Penso che il sistema delle carriere dirigenziali sia piuttosto una delle cause più importanti della degenerazione delle correnti che hanno avuto una nobilissima storia e sono state piegate ad interessi spartitori. Preso atto che la vicenda Palamara è solo un sintomo occorre comprendere come si intende affrontare la patologia e, per rimanere nella metafora, quale sia per il dott. Santalucia il “vaccino”. Occorrono riforme radicali separando la giurisdizione dall’amministrazione e riequilibrando il potere dei vertici delle procure. Mi pare che il dott. Santalucia sia d’accordo con la separazione dell’amministrazione dalla giurisdizione. È d’accordo anche sulla necessità di operare un riequilibrio del potere dei vertici delle procure?

Su questo giornale abbiamo ospitato due interviste a Caiazza (Ucpi) e Santalucia (Anm): un tema divisivo è quello della separazione delle carriere. Il punto di rottura ricade sempre sul destino del pm. Secondo Lei chi usa questo argomento è in malafede o ignaro della proposta dell’Ucpi?
L’Ucpi con la sua proposta di riforma costituzionale di iniziativa popolare ha dato un contributo fondamentale nel “laicizzare” questo tema sottraendolo a strumentalizzazioni politiche nelle quali in passato era rimasto incagliato. Ora i tempi sono maturi per liberarci anche da tali paradigmi dialettici obsoleti. Il luogo comune secondo il quale separare le due carriere significa sottoporre il Pm all’esecutivo è divenuto un alibi per non affrontare la questione nel merito. Il destino del Pm è scritto in quella proposta: due carriere separate e due distinti Csm, uno per i giudici ed uno per i Pm. Sta alla serietà delle parti dire a questo punto se si tratta di una soluzione sufficiente a garantire l’autonomia e l’indipendenza dell’organo dell’accusa dal potere politico. L’assetto attuale non garantisce di certo né la terzietà dei giudici né l’autonomia dalla politica. E questo non è luogo comune…

Legato a questo tema c’è quello che per qualcuno è uno “strapotere” dei pm. Per Santalucia basta avere fiducia nel controllo dei giudici. Basta davvero?
Le democrazie moderne si salvano se garantiscono gli equilibri fondamentali fra i diversi poteri dello Stato. Non vi è dubbio che l’esercizio discrezionale e non regolato dell’azione penale, coniugato con gli attuali assetti ordinamentali, consegna alle Procure una capacità di incidere in tutti i settori determinanti della vita del Paese: amministrativi, politici, economici. Ma questo strapotere è ovviamente il risultato della mancanza di un bilanciamento reale che provenga dalla giurisdizione. I Pm sono gli autori veri della giustizia, al giudice spetta solo la vidimazione delle loro scelte e il giudice che assolve è un giudice che sbaglia. Il risultato è quello del giudice delegittimato. A ben vedere la questione si pone in termini esattamente opposti a quel che dice il Presidente Santalucia ….

E arriviamo al tema della responsabilità professionale dei magistrati: Albamonte, segretario di Area, ha detto che la proposta dell’Ucpi è una “baggianata pazzesca”. Qual è il suo commento?
Nel nostro Paese la questione è ancora assoggettata alla cosiddetta “etica dei principi” (se mi comporto per il bene della collettività non posso rispondere degli esiti pur negativi delle mie scelte) e non a quella della responsabilità secondo la quale ognuno deve rispondere delle proprie scelte specie quando incidono sulle vite dei cittadini e sono il risultato di un potere così esteso e così spaventoso come quello giudiziario. Non può esistere un sistema nel quale la magistratura è di fatto sottratta ad ogni tipo di seria valutazione professionale, disciplinare e civile al tempo stesso.

A suo parere il processo penale può ancora raggiungere i suoi scopi se la comunità in cui si celebra non ne condivide le regole ed i valori fondanti? Mi riferisco al fatto che oggi è in atto uno scontro tra il populismo penale e una concezione garantista del diritto e della pena.
Certamente no. Soffriamo di un handicap culturale che ha radici più antiche del populismo penale, e che lega il processo penale ad una base etica in una visione che una moderna democrazia liberale non dovrebbe mai condividere. Scontiamo un sentimento popolare che spesso confonde il reato con il peccato ed una formazione autoritaria del fascismo che fa – come scriveva Grandi – di ogni magistrato un sacerdote.

Dice Armando Spataro: «Bisogna spiegare ai magistrati come “non si comunica”. Il compito del magistrato non è quello di formulare ipotesi affascinanti, ma di mettere a nudo la verità con prove inconfutabili». Pensando però ad alcuni magistrati requirenti sembra che invece ci sia una gran voglia di andare in tv e reclamare attenzione mediatica. Che ne pensa?
Il dott. Spataro ha ragione ma non è solo questo. Ancora di recente ho sentito dire a un noto PM che scopo di un processo da lui istruito era quello di ricostruire un determinato fenomeno criminale. Il problema è ricondurre il processo alla cultura liberale della giurisdizione e convincerci che il suo scopo non è quello di combattere fenomeni criminali e tanto meno quello di farne la storia ma di accertare le responsabilità dei singoli. La vicenda del processo per la cosiddetta Trattativa stato mafia mi pare paradigmatica di questa deviazione clamorosa.

Tema carcere: si è persa, durante la pandemia, un’altra occasione per ripensare il carcere?
Quello del carcere è nel nostro Paese uno scandalo permanente oggetto di una costante rimozione. Dalle condanne CEDU nulla è cambiato. La timida ripresa della riforma partorita dagli Stati generali del Ministro Orlando stenta a farsi strada. La politica ha mostrato in quel passaggio tutta la sua incapacità di riaffermare i principi costituzionali formando l’opinione pubblica e non facendosi condizionare da un pubblico privo di opinioni e vittima del risentimento sociale. Insegnare che la sicurezza passa attraverso la riabilitazione ed il riconoscimento della dignità radicale dell’individuo e non la carcerizzazione.

Secondo Lei dinanzi agli episodi di presunti pestaggi nei confronti dei detenuti sarebbe utile una qualsiasi presa di posizione del Ministro Bonafede che non sia il silenzio?
Il Ministro Bonafede ha sempre aderito a parole alla necessità di tutelare i diritti dei detenuti ma nei momenti di crisi non ha mai agito di conseguenza. Il mondo della detenzione è pensato come mondo chiuso e di fatto consegnato solo alla retribuzione.