L’anno appena trascorso sarà studiato a lungo e non solo sotto il più scontato profilo sanitario. Le istituzioni di ogni Paese sono entrate in uno stato di fibrillazione dal quale stentano a riprendersi e in Italia questo è successo più che altrove. Governo, Regioni, Parlamento, la pubblica amministrazione in generale hanno dato la sensazione di uno sfarinamento complessivo, di una insuperabile difficoltà a fronteggiare le mille emergenze che affliggono il paese, con il risultato di condurlo – dopo un lungo e doloroso abbrivio – alla paralisi quasi assoluta che si sta consumando in queste settimane. Niente vaccini, contagi alle stelle, crisi economica, ritardi nella programmazione economica, leggi finanziarie approvate all’ultimo secondo. In tutto questo fluttuare di incertezze e immobilismi, l’acquitrino si staglia come la meta più probabile dello sfociare di questo fiume irruento e malmostoso.

La macchina giudiziaria non ha, anche lei, mancato di offrire inefficienze e manchevolezze. Con una particolarità, tuttavia, che per la giustizia è stato costruito un vero e proprio diritto della pandemia che ha riguardato non solo tutti i settori della giurisdizione, tra cui quella civile e penale, ma anche minutamente sfratti, esecuzioni, regime carcerario, indagini, processi in appello e in cassazione, e quant’altro. Un ordinamento speciale che, man mano, ha preso corpo e si è sostituito a quello vigente prima del Covid-19; un sistema che ha approntato i propri riti, ha disvelato i propri punti di forza e le proprie gravi cedevolezze, ha visto copiosamente all’opera anche puntigliosi e minuti esegeti. Qualcuno ha denunciato che la magistratura, al primo manifestarsi acuto dell’epidemia, si sarebbe collocata in “autoprotezione” con una serrata dei tribunali, coltivando l’idea di una giurisdizione “domestica”, ossia esercitata non nelle aule di giustizia, ma al riparo delle proprie abitazioni, insomma a casa. A questa accusa il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, ha risposto con una certa ruvidezza in una recente intervista ammonendo che «sbaglia chi crede che la magistratura abbia interesse a fare i processi da casa. Quando si potrà torneremo a farli tutti in presenza» per cui le misure valgono «ovviamente soltanto per il periodo dell’emergenza». Una frase che tende a tranquillizzare le Camere penali, preoccupate dall’idea di una stabilizzazione del precariato normativo del 2020, e a ridare lustro all’immagine della corporazione che si è sentita vulnerata da una simile contestazione che coglie un sentimento diffuso. Nulla di peggio che passare per codardi di questi tempi, con tanta gente che rischia la vita ogni giorno. Potrebbe apparire che questo sia l’ultimo dei problemi con cui la magistratura è chiamata a fare i conti dopo l’affaire Palamara, ma la presa di posizione del presidente dell’Associazione non è casuale. Il credito che si è riversato sulle toghe italiane dopo la stagione della mattanza terroristica e mafiosa è stato enorme e, tuttora, resta grande.

La prossima beatificazione di Rosario Livatino con le stimmate del martirio cristiano ne è solo l’ultima, importante manifestazione. In questi decenni, certo, non erano mancati scandali, inefficienze, deviazioni o malcostume, ma la crisi innescata dalla vicenda di Luca Palamara ha mandato in frantumi il pantheon della magistratura italiana, trasformandolo in un discutibile reliquiario con le foto e le frasi dei giudici uccisi adoperati come soprammobili sulle scrivanie a uso televisivo o come santini per celebrazioni spesso inquinate dalla presenza dei loro avversari di un tempo. La provocazione delle toghe serrate tra le comode mura domestiche in piena pandemia ha sferzato con durezza un corpo già esangue e febbricitante che non può sopportare di transitare dal sangue di Rosario Livatino alla codardia di don Abbondio. Il presidente dell’Associazione ha lucidamente avvertito il pericolo di veder andare in frantumi anche gli ultimi bastioni di una fortezza che, per anni e anni, ha resistito a ogni assalto e che, come tutte le fortezze, non per un assedio ha visto aprirsi una breccia nelle sue mura, ma per l’astuzia di un cavallo non a caso chiamato trojan. Non è dato sapere se l’arrocco deciso dalle toghe associate, con la scelta di un presidente di alto valore professionale e conosciuta dirittura morale, riuscirà a evitare lo scacco matto. Al momento si deve registrare che, in piena pandemia, all’interno della magistratura italiana si sono costituiti due altri gruppi, uno dei quali frutto di una scissione che non ha precedenti in quel lato del parlamentino associativo, sinora sempre coeso e compatto. È il segno dei tempi e delle urgenze che premono alle porte della magistratura italiana e che non spingono alla conciliazione e all’attesa.

È anche il segno che la corporazione deve, forse, fare i conti con l’ultima maggioranza parlamentare a essa “non-ostile” se non “amica” nella storia recente e che le toghe potrebbero trovarsi – in una posizione di inedita debolezza e perduta credibilità – a doversi confrontare con una classe politica meno incline al compromesso e al dialogo della precedente. La clessidra di questa legislatura corre veloce e l’anno pandemico, lungi dal portare la moratoria che molte toghe auspicavano, ha solo aggravato la situazione aggiungendo critiche e insofferenza verso la magistratura. Di qui la mossa comunicativa più efficace e rassicurante del presidente dell’Anm: «Il caso Palamara non si esaurisce con la vicenda dell’ex leader di Unicost, dal momento che anche vari altri colleghi sono coinvolti» e, poi, la prima indicazione operativa per il futuro della nuova compagine associativa appena eletta: «Su questo fronte sicuramente proseguiremo il lavoro fatto dalla giunta precedente e cioè quello di verificare e di accertare, sulla base delle regole del nostro codice etico, i comportamenti scorretti che sono emersi in quella vicenda». Un passaggio importante e da non sottovalutare. Se l’azione disciplinare ha dovuto selezionare fatti e condotte secondo regole stringenti, la giustizia deontologica ha altre, e ben più lasche, regole e molti di coloro i quali sono sfuggiti alla prima hanno ben donde si temere la seconda.

In questo snodo un impegno preciso che, certo, non sarà indolore per i magistrati associati e per quanti fidavano nella tregua pandemica per rifiatare. La nuova peste non ha reso un buon servigio a tanti e anche alla magistratura italiana di cui ha portato a nudo inefficienze e limiti che ora sono chiari e vanno colmati. In questa tragedia immane bisogna sempre sperare che ogni sventura possa essere un’opportunità, lo auspicava anche il pavido dei pavidi alla morte di don Rogrido: «Ah! – diceva poi tra sé don Abbondio, tornato a casa: – se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male: quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione; e si potrebbe stare a patti d’averla; ma guarire, ve’». Ovviamente a guarire.