I drammatici e nuovamente attuali eventi arabo-israeliani ci impongono di riflettere su quel processo oscuro che getta un velo d’ombra tra chi è considerato degno delle virtù umane e chi invece ne viene spogliato.
La deumanizzazione, la più grave forma di discriminazione che si cela dietro l’odio o l’indifferenza. Un veleno che può colpire una comunità o un singolo individuo, presenza più diffusa di quanto si osi immaginare, avvolta nel tenebrore della vita quotidiana e pronta a scatenare violenza fisica e psicologica dalle conseguenze distruttive contro i suoi innocenti bersagli. Considerare l’altro “meno umano” spinge oltre ogni limite morale, trasforma in mostri privi di empatia e compassione. Per placare i nostri incubi, ci illudiamo che le tenebre del passato siano sigillate e incapaci di risorgere nell’oggi. E consideriamo erroneamente coloro che hanno agevolato o orchestrato quegli oscuri capitoli come “pazzi”, prendendo le distanze da quel male.

Eichmann, però, non risultava essere folle, sadico o malvagio. Semplicemente eseguiva ordini elevando l’obbedienza a crimine e dimenticando che si può amare la legge anche facendo quanto in nostro potere per cambiarla se non protegge i più deboli. Nella trama intricata della storia, emerge un filo oscuro di esempi in cui si annulla l’essenza umana dell’altro, lo si riduce all’insignificanza e lo si tormenta senza pietà: dalla colonizzazione del Nuovo Mondo, al Malleus Maleficarum con la sua scientifica caccia alle streghe, alla propaganda nazista. Tutto in linea con i risultati di una ricerca di Bruneau del 2015 che evidenzia come, indipendentemente da cultura e area geografica di provenienza, c’è sempre un gruppo che ritiene gli altri “non umani”.

Nelle profondità della psiche umana esiste un angolo nascosto, un precipizio in cui alcuni si spingono al punto estremo, arrivando a negare la propria essenza umana. La paura della morte, guardiana della vita, bussa a ogni cuore senza sosta. Quando questa paura svanisce emergono abissi psicopatologici, punto di partenza della pericolosa e inquietante realtà osservabile tanto nelle menti afflitte dai demoni dell’anoressia, della dipendenza da sostanze, del disturbo borderline di personalità e delle psicosi quanto nel terrorismo suicida. Situazioni in cui l’angoscia di morte sfuma, cedendo il passo all’attrazione per la distruzione del Sè. Kamikaze, come custodi di credenze estreme che riecheggiano i sintomi di alcuni disturbi mentali, della schizofrenia che scambia la precipitazione con la possibilità di volare o dell’anoressia che confonde la consunzione col divenire puro spirito. Non esiste un ritratto standard dei terroristi o degli attentatori suicidi. Un caleidoscopio di età, sesso, culture, religioni e ideologie li distingue e non vi è alcun marchio patologico che li definisce. Invece di scrutare nella voragine delle patologie individuali, l’attenzione va diretta verso le dinamiche familiari, di gruppo, delle culture e delle possibilità di emancipazione e crescita personale.

Perché è qui, nell’atto della rinuncia al singolo membro, chiamato a sacrificarsi in nome della collettività, che si lacera la speranza di un avvenire. Gli aspiranti attentatori devono sgretolare la propria individualità e svuotare il calice delle emozioni che li definiscono per abbracciare fino in fondo la mentalità del gruppo. Nel buio delle ambizioni politiche estreme, la deumanizzazione, il terrorismo e gli attacchi suicidi si ergono come fiori velenosi residuo di un passato segnato da traumi collettivi irrisolti.
Riconoscere l’umanità in ogni individuo è la chiave per spegnere le fiamme dell’autodistruzione e dell’orrore. Ma il cammino, sebbene possibile, appare ancora lungo. Assai.