Un sito satirico di false notizie – “Lercio” – ha pubblicato una notizia cui molte persone hanno creduto, e subito me ne hanno scritto molto allarmate. Dunque tale notizia – e cioè che a breve usciranno in Italia ben 150 libri con lo stesso titolo, Diario della quarantena – è apparsa ai più del tutto verosimile. Sappiamo invece per certo che è appena uscito il libro Ai tempi del virus. Cento voci fra sentimenti e realtà, e a settembre 100+1 editori pubblicheranno un corposo volume collettaneo sul Covid-19. E sappiamo altresì che non c’è blog, sito, canale dei social, etc. che non ci offra diari e memorie della quarantena. Pestilenze e epidemie ci sono state in passato ma nessuna ha generato uno sconfinato memoir cosmico, una esorbitante pandemia diaristica come il coronavirus. Tutti che ogni giorno ci dicono la loro, che raccontano dettagliatamente la loro percezione personale – ovviamente unica, interessantissima, esclusiva – e ci invitano a condividerla.

Ora, perché prendersela moralisticamente con una cosa del genere? Che la gente rifletta sulla propria esperienza, e che scambi questa riflessione con gli altri, potrebbe essere un fatto positivo, il sintomo di una società matura, autoconsapevole. Una volta Sciascia disse di diffidare di un popolo come quello italiano, poco avvezzo a tenere diari. A Pieve Santo Stefano, in Toscana, è stato creato nel 1984 da Saverio Tutino un Archivio Diaristico Nazionale che raccoglie ben 8.000 testi – diari, memorie autobiografiche ed epistolari di gente comune – e che costituisce un patrimonio prezioso. E allora? Dov’è il problema? Credo che su questa pandemia diaristica, che fa prendere per buone bufale e parodie inventate da ingegnosi buontemponi, vadano fatte due considerazioni. Anzitutto, ciò che insospettisce è la bruciante tempistica, permessa dalla Rete: una quasi simultaneità tra diario pubblico ed evento, una immediatezza mai prima sperimentata, una velocità di esecuzione che lascia senza fiato.

In un articolo su “Rivista Studio” Francesco Longo fa osservare che Manzoni ha raccontato la peste seicentesca a Milano due secoli dopo, Hemingway scrive della Grande guerra dieci anni dopo, La tregua di Primo Levi e Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani hanno visto luce circa venticinque anni dopo i tragici eventi narrati. DeLillo, King ed Ellroy rievocano l’omicidio Kennedy vari decenni più tardi, e perfino la serie Tv su Chernobyl arriva a trentatré anni di distanza dall’esplosione. A questi aggiungo solo Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, scritto dieci anni dopo il confino e Il partigiano Johnny di Fenoglio, il più bel romanzo della Resistenza, che l’autore scrisse in modo frammentario già alla fine degli anni 40, ma che poi dovette rielaborare e risistemare, tanto che venne pubblicato postumo nel 1968. Conclude Longo: per afferrare il passato «bisogna aspettare uno sguardo in grado di cogliere l’aspetto cruciale di una vicenda». La letteratura non ha fretta, non è fatta di instant book. E l’esperienza deve essere sedimentata per tradursi in scrittura ed esprimere la propria verità.

E poi: a Pieve è disponibile un archivio immenso, a disposizione di chiunque voglia approfondire la conoscenza di periodi storici, di eventi collettivi, visti per così dire dall’interno, così come sono stati vissuti dai singoli. Solo così possiamo ricostruire e ricomporre i frammenti della mentalità allora dominante, entrare nel cuore e nella mente delle persone. Un metodo conoscitivo “induttivo”, non lontano dalla scuola francese degli Annales, dalla microstoria di Carlo Ginzburg interessata al quotidiano concreto. Ma nessuno di quegli autori anonimi i cui scritti sono raccolti a Pieve aspirava alla ribalta, nessuno aveva la smania di apparire. Viviamo in un’epoca di narcisismo di massa e di ansia del riconoscimento sociale in cui nessuna opinione singola, anche sul più piccolo evento, resta privata. Tutto diventa subito pubblico: tra le Lezioni americane di Calvino avrebbero dovuto trovare posto, come pilastri del mondo contemporaneo, la Trasparenza e la Simultaneità (temi appena sfiorati nel capitolo sulla Visibilità e in quello sulla Rapidità).

Personalmente sento il bisogno di raccontare la mia percezione della quarantena – pensieri (anche molto confusi, o banali) suggestioni, fantasie intime -, ma vorrei raccontarle agli amici, ai miei cari, alle persone che amo e che stimo, e non a tutti, in modo indifferenziato, solo per esserci, per dimostrare che esisto. In questo pervasivo instant diary ci vedo soprattutto una mancanza di pudore. E il pudore è quel sentimento che nasconde qualcosa, o lo lascia nell’ombra, per preservarlo. In questo modo invece portiamo tutto e subito alla luce, e così lo disperdiamo, lo vaporizziamo.