Dio è morto e neanch’io mi sento troppo bene”, diceva Woody Allen. Oggi anche l’Europa è fragile e malaticcia. Le pulsioni reazionarie ribollono, la politica e le opinioni sono affidate a Tik Tok e ai millenaristi che invocano la fine del pianeta. E ci si risveglia un mattino con l’ultradestra in ascesa in Germania e con i laburisti inglesi che vengono a ripetizioni da Meloni per copiare il “modello albanese” di contrasto all’immigrazione. Il mondo al contrario non è quello di Vannacci, ma una società polarizzata per incapacità e convenienza, malata di bellicismo e demagogia, stremata da decenni di tensioni sociali e terrorizzata dall’avanzata islamica. Una modernità dove la politica della concretezza è esiliata da logiche e interessi che la sovrastano.

Le chiese, vecchie e nuove, rincorrono confusamente la quotidianità e faticano a fare da ponte anche con le proprie comunità di riferimento, inclusi i nuovi cittadini di origine straniera che a queste fanno riferimento. Dove e come costruire dunque una nuova rappresentanza, un senso di appartenenza? Dove ritrovare i luoghi del dibattito, dell’elaborazione delle proposte e delle istanze? Dove, in sintesi, ritrovare gli elementi concreti, i mattoni per restituire alla politica, se ancora possibile, la capacità di immaginare ed edificare la società? Come uscire dal ricatto dell’economicismo che impedisce di riportare al centro del dibattito le vere emergenze come la competitività, l’innovazione, il lavoro e la cittadinanza?

Alcuni antidoti a questo declino ci sono, e partono dalle città, dove il fenomeno migratorio genera dinamiche più complesse ma anche opportunità. Le aree urbane ad alta densità migratoria, se non abbandonate a sé stesse, possono trasformarsi in laboratori di innovazione sociale e sperimentazione per la costruzione di nuove comunità e di rappresentanza civile. Il processo di costruzione di una cittadinanza piena per queste realtà di origine straniera dovrebbe essere in cima all’agenda politica e delle amministrazioni locali. Allargare lo sguardo sulla compresenza di varie nazionalità come quella singalese, filippina o dell’est europeo, permetterebbe di vedere il prisma identitario e religioso che rappresentano e uscire dall’angolo dello sterile dibattito Islam sì, Islam no, immigrati sì, immigrati no.

Garantire uno spazio espressivo, diritti attuabili, concreti, consentirebbe di andare oltre la propaganda della paura e il dibattito moralistico sull’accoglienza e ragionare senza retorica sul contributo che queste comunità offrono allo sviluppo e alle economie dei nostri paesi. Il pluralismo, lungi dall’essere una minaccia per la “civiltà occidentale”, è un dato di fatto e può essere ancora la linfa per un’Europa a più voci e la strada per uscire dall’emergenza perenne. Si può iniziare dalla scuola, luogo di incontro e comunità per eccellenza, dove spesso nove bambini su dieci arrivano da famiglie immigrate. La politica può ripartire da qui per immaginare i nuovi cittadini e allora, forse, una soluzione al declino ancora c’è.

Stefano Bettera

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