Il Premio Pulitzer per la narrativa quest’anno l’ha vinto un romanzo garantista. I ragazzi della Nickel, (Mondadori, pp. 216, 18,50 €), l’ultima fatica di Colson Withehead, è ancora una volta un manifesto di denuncia sociale. Apparso sulla prestigiosa copertina del Time, fregiato del titolo di America’s Storyteller (Narratore d’America), Withehead non è nuovo al rinomato premio letterario. Lo ha infatti vinto per la prima volta già nel 2017 con La ferrovia sotterranea, edito in Italia da Sur, per aver restituito uno spaccato antropologico di una delle pagine più oscure della storia statunitense, un racconto sulla tratta degli schiavi afroamericani durante la guerra di Secessione.

Tuttavia, I ragazzi della Nickel non si esaurisce nella cronaca di quei dannati anni di segregazione razziale sotto le leggi Jim Crow. Sebbene condivida con il suo lavoro precedente un sostrato etnico imprescindibile, il nuovo romanzo è insieme un’acuta riflessione e un’aspra critica all’ordinamento giudiziario americano, al fallimento di una politica di rinserimento del condannato nella società, basata sull’inadeguatezza di un sistema carcerario oppressivo e umiliante.
La Nickel Academy che compare nel titolo è infatti lo pseudonimo di una scuola-riformatorio per soli maschi realmente esistita. Si tratta dell’istituto di correzione Arthur G. Dozier School for Boys di Marianna, in Florida, noto per essere stato, per più di un secolo, il teatro di scene raccapriccianti, abusi, torture e stupri nei confronti di minori incarcerati, allo scopo di “rieducarli” alla disciplina della società civile. Le indagini condotte nel 2012, anche grazie al contributo degli studenti di archeologia della University of South Florida, hanno portato alla luce il ritrovamento di un’ottantina di tombe clandestine, più di 50 corpi seppelliti e non dichiarati, nei pressi dell’istituto. Inoltre, dall’analisi del Dna, i cadaveri mostravano segni di un grave stato di malnutrizione, ferite da arma da fuoco, tumefazioni e traumi causati da percosse.

Le storie dei sopravvissuti al riformatorio degli orrori, chiuso poi nel 2011, si sono a poco a poco collezionate fino a comporre un inquietante mosaico, sul quale Withehead ha ricostruito il «viaggio all’inferno» del suo protagonista, Elwood Curtis. L’edificazione culturale del ragazzo, prima enciclopedica, poi acquisita sulle pagine di Life e imbevuta nei discorsi di Martin Luther King Jr. si forma nel sonnecchiante quartiere afroamericano di Frenchtown, Florida, nel quale negli anni Sessanta comincia già a muoversi il Comitato di coordinamento studentesco non-violento, una delle più significative organizzazioni legate al Movimento per i diritti civili degli afroamericani. Il fatale, ma inconsapevole, errore di accettare un passaggio a bordo di un’auto rubata lo conduce alla Nickel, tra gli orfani senza dimora, piccoli malfattori e coloro che erano stati accusati di «simulazione di malattia, bighellonaggio e incorreggibilità». Per la maggior parte, ovviamente, di colore.

Una persecuzione volta al reclutamento di manodopera da impiegare secondo le rigide regole dello schiavismo, da stipare in camerate destinate a 60 persone, con brande distanti mezzo metro le une dalle altre, in sgabuzzini convertiti a celle di isolamento con un solo pasto al giorno, nei casi di mancato rispetto delle leggi. Ricorda qualcosa?
E infatti: «Comportatevi bene e andrà tutto bene», è la dura lex sed lex della Nickel, l’obbedienza all’autorità come fondamento per la preservazione della propria salute. Un‘idea di giustizia che dipende dal caso, dall’arbitrio della sorveglianza, che decide di intervenire o soprassedere a seconda dell’umore; un gioco sadico che non ricorre alla richiesta della responsabilità del soggetto coinvolto, che non tiene conto delle sue implicazioni, esso viene punito e basta.

La Nickel è stata per Withehead una scoperta sconvolgente, ma anche una presa di responsabilità nelle vesti di cittadino e di scrittore. Questa storia doveva essere pubblicata perché, come ha detto: «la letteratura non può cambiare ciò che è stato o fare giustizia, ma ha il potere del racconto». L’urgenza narrativa non ha nulla a che vedere con la vendetta. Il confino di quei ragazzi, l’allontanamento dai propri affetti, irraggiungibili per via delle impervie posizioni carcerarie, ha condannato intere generazioni di sopravvissuti alla dipendenza psicologica all’aggressore, sintomi della sindrome di Stoccolma, o in caso contrario, alla sfiducia nel sistema-umanità, all’annichilimento, alla violenza indifferenziata, all’assuefazione agli stupefacenti, alla criminalità recidiva e alla conseguente morte in carcere, «lasciati a decomporsi nelle stanze affittate a settimana o congelati in un bosco dopo aver bevuto acquaragia».

Come in ogni minoranza oppressa, è prevedibile, quasi inevitabile, la nascita di una maggioranza oppressiva al suo interno. Così, nonostante Rosa Parks, la sentenza della Corte suprema degli Usa Brown contro Board of Education, che aveva imposto la disegregazione delle scuole, e i sit-in di Greensboro, tra le mura graffiate della Nickel, le simpatie per il Ku Klux Klan hanno generato una sopraffazione tra “pari”, ancora una volta, di natura razziale: i condannati bianchi su quelli neri. È qui che si sente l’eredità di Baldwin sulla scrittura di Withehead, dichiarata filiazione letteraria dell’autore, mescolata alla brutalità perversa del collegio militare del giovane Törless di Musil. Infiltrandosi al di dentro, come già Lorenzo Carcaterra nel romanzo autobiografico Sleepers, Withehead raccoglie le drammatiche testimonianze con l’acume del criminologo riformista e protagonista di Brubaker, film del 1980 con Robert Redford, ispirato alla storia del penitenziario di Wakefield in Arkansas, che versava in condizioni disumane.

Withehead racconta chirurgicamente la storia di un crimine istituzionalizzato. Il governo americano era infatti a conoscenza dell’anomalia della struttura, definendola di “riabilitazione scolastica”, nella quale però si poteva ottenere il diploma solo per la buona condotta. L’educazione intellettuale valeva meno di ubbidienza e docilità, prerogative considerate indispensabili «per un uomo rispettabile e onesto». Disobbedire alla legge della Nickel significava, nel lessico agghiacciante della comunità, «andare giù», ossia una catabasi, una discesa negli inferi, battezzata “Casa Bianca”, ex deposito di attrezzi adibito a stanza delle torture, dove si abusava del prigioniero su un materasso insanguinato, seguendo il diktat: «frustarlo finché non ricorda altro che la frusta, incatenarlo perché non conosca altro che le catene». E spesso dalla Casa Bianca non si tornava più…