«Non deve vincere la narrazione della paura e della diffidenza». Le parole del cardinale Bassetti, presidente della Cei, suggeriscono compostezza e misura nei giorni bui della sofferenza e del dolore. In ogni settore della vita pubblica del Paese quanti prendono la parola avrebbero il dovere della prudenza e della verità. Non accade. Non accade sempre. Questo non vuol dire che ci si debba o ci si possa rassegnare al velo dell’enfasi, al mantra della paura o alla mistica dell’esaltazione. Anche nel variegato e pittoresco pianeta dell’antimafia non mancano in questi giorni i dispensatori di analisi inquietanti e di scenari apocalittici. Qui e là i dioscuri dell’antimafia – quelli delle pagine patinate e dei convegni, sia chiaro, non i tanti seri e composti che operano in silenzio – non perdono occasione per alimentare nella popolazione e nelle fragili istituzioni del Paese il terrore di programmi scellerati con le cosche pronte a elargire denaro ai bisognosi e fare shopping di tutte le imprese in crisi.

La scenografia mediatica si arricchisce di supposizioni, predizioni, calcoli che nessuno ha mai controllato e che nessuno, invero, ha mai avuto voglia di controllare e confutare. Perché l’industria della paura ha i suoi vati, ma ha anche a disposizione chi vende la merce senza tanto stare a sottilizzare sulla bontà dell’articolo, e contrastarla può essere, come dire, sconsigliabile. Nella vastità delle supposizioni proviamo a mettere in fila almeno alcuni dati.
La produzione mondiale della cocaina secondo il rapporto dell’Agenzia Onu di Vienna (Unodoc 2019) è di circa 2.000 tonnellate l’anno. Il prezzo all’ingrosso di questo stupefacente varia tra i 1.200 e i 1.500 dollari al chilo. Complessivamente la cocaina prodotta nel mondo vale all’ingrosso 3 miliardi di dollari all’anno che finiscono direttamente nelle tasche dei narcos colombiani, peruviani e boliviani che la producono.

Poi ci sono i broker americani, messicani, olandesi, spagnoli e italiani che acquistano la roba e la rivendono in blocchi. I boss della ‘ndrangheta, insieme a quelli campani, hanno un ruolo importante in quest’attività di brokeraggio, qualche tonnellata di cocaina passa sicuramente tra le loro mani con destinazione verso le reti dello spaccio in gran parte in mano a extracomunitari. La spesa per il consumo di tutte le sostanze psicoattive illegali in Italia è stimata in 15,3 miliardi di euro (fonte: Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le politiche antidroga, relazione 2019). Per tutte le droghe si intende ovviamente tutte nessuna esclusa e, infatti, in questa imponente massa di denaro, «poco più del 42% è attribuibile alla spesa per il consumo di cocaina» (stessa fonte). Il ché equivale a 6,5 miliardi circa ogni anno.

Naturalmente l’importo si riferisce a quanto finisce nelle mani di migliaia e migliaia di pusher in tutte le città e i borghi d’Italia. I broker calabresi, siciliani, campani intascano una buona frazione di questa, pur imponente, massa di denaro che si gonfia per il taglio a valle della roba venduta a monte quasi pura dai boss. A spanne, ma con una sufficiente precisione, questo è lo scenario. Noioso mettersi a far di conto, ma l’alternativa sono le chiacchiere in libertà. Ora chi afferma che la sola ‘ndrangheta realizzi incassi per 30 miliardi di euro l’anno si prende una bella responsabilità che è quella di dare del bugiardo alle Agenzie internazionali e nazionali più accreditate e meglio informate al mondo o di bisticciare con la matematica.

Un vecchio e indimenticato cronista giudiziario a chi gli chiedeva conto di qualche articolo in cui si narrava di spettacolari progetti della ndrangheta senza che vi fossero evidenze investigative, rispondeva sornione «finché le cosche non avranno messo in piedi un ufficio stampa per smentire…». Certo se non smentiscono loro perché mai imporsi l’ingrato compito di mettere in discussione le tanto condivise esagerazioni che circolano da anni. Perché, come recita l’Ecclesiaste, c’è «un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci» (3, 5) anche quelli avvolgenti e protettivi dell’agora antimafiosa che da anni mantiene un rigoroso silenzio su questa contabilità almeno sospetta.

Questo, come sappiamo purtroppo, non è il tempo degli abbracci e non è il tempo per gettare sassi nella palude della paura. Ingigantire numeri e cifre nella certezza di non essere smentiti, prefigurare apocalittiche scalate sociali ed economiche non rende alcun servizio al Paese. Sarebbe un dovere imprescindibile tentare un’altra narrazione e cercare – per come si può – di dar tregua alle ansie e alle paure della gente almeno su questo versante, almeno oggi.  Non ci si deve troppo meravigliare, poi, che una pur marginale stampa tedesca a caccia di pretesti per affossare la Nazione evochi lo spettro dei denari europei nelle tasche dei mafiosi.

Dopo la strage di Duisburg (13 anni or sono) sono state dozzine le delegazioni di inquirenti italiani che sono stati invitate in Germania per dare ausilio e chiarimenti sulla mafia. A fronte di chi ha usato temperanza e controllo v’è stato chi ha tracciato innanzi alla pubblica opinione e alle autorità tedesche orizzonti catastrofici, sia chiaro praticamente senza dare mai dati o notizie precise o elementi concreti su cui indagare. Con il risultato che i tedeschi, non avendo mai trovato in Germania nulla di cui gli italiani narravano in termini così apocalittici, hanno abbassato ancor più la guardia e messo da parte la strage come una questione tra calabresi in trasferta. Lasciando, tuttavia, i grumi di pregiudizio che oggi ci vengono brutalmente rinfacciati.

Sarebbe giusto dire che molte organizzazioni mafiose sono state letteralmente sbriciolate dallo Stato, che non esistono più (con una sola eccezione) latitanti che meritino davvero l’impiego massiccio di uomini e risorse per la loro pur sacrosanta cattura, che le condanne ogni anno di colletti bianchi per collusioni mafiose stanno tutte nelle dita di una mano, che la prestigiosa Agenzia nazionale per le confische ha un pubblico elenco in cui si può facilmente verificare quali siano i beni e quali le aziende sottratti ai clan. Nulla che rimandi a decine e decine di miliardi di euro ogni anno, nulla che evochi la scalata di società e imprese di primario rilievo, una scalata per giunta mai accertata in decenni di indagini. Certo, nelle marginali ed emarginate banlieue di Napoli e di Palermo i clan incassano, dispensando quattro spiccioli, una credibilità e un consenso che lo Stato non ha mai saputo conquistare o anche solo contendere. Ma di qui a dire che i boss siano pronti a espugnare la fortezza finanziaria ed economica di una nazione come l’Italia ne corre.

I clan hanno oggi la necessità di rimpinguare di denaro le loro attività di riciclaggio, esauste come tutte le altre nel nostro Paese malato. Per farlo dovranno mobilitare risorse illecite e immettere liquidità nascosta nelle proprie aziende. Ecco, invece che terrorizzare la pubblica opinione con stentorei interventi e ancor più sterili allarmi, chi ha il dovere del contrasto alle mafie pensi ad adempierlo. Rafforzando l’asfittica e burocratica filiera dell’antiriciclaggio, addestrando agenti sottocopertura pronti a infiltrarsi, guadagnando la collaborazione delle imprese ora che lo Stato si rende garante per loro con centinaia di miliardi di euro e deve pretenderne la lealtà. Nulla di troppo complicato. Adempiere il proprio silenzioso dovere, come fanno in tanti in queste settimane.