L'intervista
IA nel cinema, The Eggregores’ Theory ai David. Il regista Gatopoulos: “Ero un videogiocatore, mi sono reinventato come mio nonno a Pescara. Tecnologie? Se un non creativo ci lavora può esserne risucchiato”

«Nessuna forma d’arte inventata dall’essere umano si è mai estinta». E per un motivo molto semplice: «L’arte esiste perché agli esseri umani piace crearla, come andare in bici, a correre e giocare. L’arte non si estingue, dunque, al limite cambia l’industria, cambia il mercato, ma questa non è un fatto a cui possiamo opporre resistenza, perché il mercato è una risposta sociale allo spirito del secolo, allo Zeitgeist». Parla il regista Andrea Gatopoulos, autore di “The Eggregores’ Theory”, candidato ai David di Donatello per il miglior cortometraggio. Il film racconta di una cittadina in cui si diffonde una misteriosa malattia. Dopo diverse teorie, la scoperta: una parola è diventata velenosa per l’umanità. Anche solo guardarla può causare la morte istantanea. La particolarità? L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel processo creativo, che ha fatto insorgere l’ANAC – Associazione nazionale autori cinematografici – secondo cui l’opera non dovrebbe competere, non essendo stata generata interamente da un essere umano. Nonostante le critiche, il cortometraggio ha aperto l’ultima edizione della Settimana della Critica, con la delegata Beatrice Fiorentino che ha commentato: “In quanto critici non possiamo avere paura delle immagini, indipendentemente dallo strumento che si utilizzi per generarle”.
Il dibattito tocca temi cruciali per il futuro dell’arte e dell’autorialità. Gatopoulos, classe ’94, è tra le voci più originali della sua generazione: ha lavorato con Werner Herzog, Apichatpong Weerasethakul e Radu Jude. È alumnus di Berlinale Talents, Locarno Spring Academy e attualmente in Résidence alla Cinéfondation del Festival di Cannes, dove sta sviluppando la sua opera prima, sostenuta dalla Onassis Foundation. Dalla Francia racconta: «Sono cresciuto nel negozio di elettrodomestici di mio nonno, a Pescara. Lui vendeva forni e lavatrici, ma quando sono arrivati gli ipermercati ha dovuto chiudere. Ha aperto un’edicola». Le grandi trasformazioni economiche, insomma, sono sempre state generate da innovazioni tecnologiche. «Le faccio due esempi», prosegue, «la prima è quella di Baudelaire che, all’avvento della fotografia, la definì un insulto all’arte. Ma poi è diventata una delle forme artistiche più importanti del Novecento».
Ancora: «Negli anni ’60 nacque la musica elettronica: un duo realizzò la colonna sonora di “The Forbidden Planet” senza orchestra, e gli orchestrali protestarono. Ma oggi l’industria musicale è cento volte più grande di allora». In un mondo dove «i confini sono abbattuti da internet» e «le tecnologie rendono più competitivo un Paese», fermarle diventa impossibile. «Preferisco studiarle in profondità e trovare il modo di trasformare la paura in creatività».Forte di un background letterario – ha studiato linguistica – Gatopoulos ha sempre voluto realizzare «un film con il linguaggio al centro». Le parole come strumento di creazione della realtà, «lo diceva Wittgenstein». Ma anche il Covid e gli strumenti di controllo messi in atto durante la pandemia, sono stati «prove generali di distopia», poi confluite nel film. Con l’IA lavora da anni: «Ero un videogiocatore professionista da adolescente, ho sempre vissuto nell’internet». E ha sempre voluto fare il regista, ma ha iniziato imparando i software. «Quando sono venuto a Roma non conoscevo il cinema d’autore, ma avevo già studiato le tecniche cinematografiche».
Per questo, chi «accusa questo film di pigrizia non sa che negli anni ho fatto praticamente tutti i mestieri del cinema: direttore della fotografia, montatore, produttore. Con la mia casa di produzione ho realizzato quasi 100 cortometraggi, con il record di selezioni ai festival italiani». Eppure Gatopoulos ha un atteggiamento critico rispetto all’emersione delle tecnologie: «È un segnale lampante del rischio rappresentato da una tecnocrazia». Tuttavia, «esorcizzare questa paura e capire se sia possibile trovare poesia, bellezza e creatività anche per il tramite dell’IA», è una sfida stimolante. E ha un aspetto del tutto positivo perché innesca un processo di «democratizzazione nella gestione dell’immagine cinematografica: insegno agli studenti a liberare il proprio cinema con mezzi avanguardistici, un’opportunità per chi è fuori dalle strutture elitarie». Dunque, «se le tecnologie permettono alla creatività di emergere, per me è una grande notizia». Ma avverte: «L’IA non garantisce di per sé buoni risultati: se una persona non creativa ci lavora, può esserne risucchiata».
Per questo, serve «una grande competenza semantica delle immagini». Conoscere l’immagine digitale, dunque: «Ho usato consapevolmente l’IA per il fatto che genera dei glitch». Nei videogiochi, un glitch è un’anomalia del software, che genera al giocatore vantaggi inattesi: «La mia idea era una memoria fotografica messa in una macchina che la censura e la restituisce compromessa. Per questo ho usato i glitch generati da vecchie IA, quando venivano spinte oltre i loro limiti». Il glitch è dunque l’errore involontario dell’algoritmo, e per questo ha senso. «Non si può dipingere un glitch: altrimenti, anche Francis Bacon sarebbe un pittore di glitch!». E invece il grande pittore irlandese, che ha reinventato il genere del ritratto, dipingeva sempre e solo esseri umani. Una delle sue frasi più celebri: “Ho sempre sperato di riuscire a dipingere la bocca come Monet dipingeva un tramonto (…). Ho sempre voluto dipingere il sorriso, senza mai riuscirci”.
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