L’amara vicenda del Cardinale George Pell è il simbolo della globalizzazione del processo mediatico, ma soprattutto della debolezza ormai strutturale del ruolo del giudice rispetto al ruolo assunto dalle procure e dai media, giurie implacabili del suo operato. Lo scopo in questo caso è stato comunque raggiunto, l’annullamento senza rinvio della condanna è un dettaglio del tutto irrilevante rispetto alle conseguenze extra-processuali già consumatesi. Questa storia è emblematica rispetto al tema della prescrizione e dell’importanza di avere più gradi giudizio. L’assenza di un termine ragionevole per azionare la pretesa punitiva di uno Stato, unita al processo mediatico e al fastidio per un giudizio strutturato su più gradi, è una miscela esplosiva che conserva la sua carica detonante per un tempo indefinito.

Il giudizio al Cardinale Pell è iniziato a distanza di circa vent’anni dai fatti di cui era accusato. Nel giudizio d’appello uno dei tre giudici, in disaccordo con gli altri due, ha scritto una lunga opinione dissenziente (in alcuni sistemi processuali di common law è possibile), molto più articolata rispetto alle motivazioni della condanna, sostenendo che la giuria agendo razionalmente sull’insieme delle prove raccolte avrebbe dovuto avere un ragionevole dubbio e quindi assolvere Pell.

Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se il giudizio d’appello fosse stato celebrato da un solo giudice (come forse accadrà in Italia per alcuni giudizi), anche perché quell’opinione dissenziente in appello è stata con ogni probabilità la base del ragionamento che nel terzo grado di giudizio (un misto tra cassazione e corte suprema) ha spinto l’Alta Corte australiana all’unanimità dei suoi componenti ad annullare, di fatto senza rinvio, la sentenza di condanna. Nel suo primo documento ufficiale l’Alta Corte definisce sussistente nel caso di specie una significativa possibilità che un innocente sia stato condannato sulla base di prove non in grado di sorreggere un giudizio di colpevolezza secondo normali standard probatori.

Ma non c’era solo “un giudice a Melbourne”. Infatti anche il giudice di primo grado aveva apertamente dichiarato il proprio dissenso rispetto alla decisione della giuria di condannare Pell, nel particolare reciproco confronto previsto da quel tipo di ordinamento, durante e dopo la camera di consiglio che precede l’emissione del verdetto. Il giudice è stato dunque messo “in minoranza” dalle varie giurie (tribunale e media mondiali) e questo è un segnale sempre più preoccupante della marginalizzazione del ruolo del giudice nel processo e nella cultura della giurisdizione (una vera e propria seccatura per alcuni procuratori d’assalto e alcuni media).

Questo annullamento ha riguardato solo la condanna, mentre resteranno per sempre pene ben più gravi. Resta circa un anno di prigione scontato ingiustamente. Resta lo sconvolgimento dell’istituzione di uno Stato (il Cardinale Pell era la terza carica dello Stato Città del Vaticano e non ha invocato l’immunità). Un dato è infine da rimarcare. Tutto questo è avvenuto per un processo che per i tre gradi di giudizio è durato solo poco più di due anni ma che ha causato comunque danni enormi. Un tempo nettamente inferiore a quello che un fascicolo del pubblico ministero trascorre in media in Italia sullo scaffale della sua segreteria, prima di arrivare in una aula di tribunale.

Speriamo che almeno tutta questa vicenda serva a non lasciare sopito il nostro dibattito sulla giustizia, sulla prescrizione e sui vari gradi di giudizio, che non restino come “brocardi dei nostri tempi” i vari “senza la riforma l’avrebbe passata liscia”, “la prescrizione non è giustizia”, “riduciamo i tempi dei processi eliminando la prescrizione”, “dopo la condanna di primo grado c’è un accertamento di colpevolezza quindi si può bloccare la prescrizione”, “limitiamo l’appello”, “tre gradi di giudizio sono troppi”, “come è possibile che quel giudice ha assolto?”. C’era più di un giudice a Melbourne.

Ci sono tanti giudici in Italia, ma le loro opinioni vivono nell’ombra perché il fascio di luce è tutto per i pubblici ministeri. Illuminiamo allora le dissenting opinion dei giudici. Magari così qualche loro timore di esprimerle pubblicamente verrà meno.

Federico Baffi, Giorgio Varano

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