Nelle dimissioni della presidente di Harvard University, la prima persona di colore e la seconda donna a ricoprire un ruolo così prestigioso a Harvard, si intersecano diversi temi (solo uno dei quali è accademico) che saranno centrali anche al dibattito pubblico politico, e dunque elettorale, in questo 2024 americano. Prima i fatti: Claudine Gay, laurea a Stanford, e dottorato a Harvard è professoressa di scienze politiche e di studi africani e afro-americani. Figlia di immigrati haitiani che si erano conosciuti a New York da studenti, dopo essere stata nominata Decano della Facoltà di Arti e Scienze a Harvard è stata scelta per la presidenza nel giugno del 2023. Esattamente dopo sei mesi e due giorni si è dimessa dalla carica di presidente che è stata affidata, ad interim, al Provost, Alan Garber, un professore di economia e di politiche applicate alla Sanità, anche lui con una carriera (ben più lunga) a Stanford University e a Harvard.

Le dimissioni di Gay, invocate da più parti e scongiurate da altre, sono una vera bomba per le questioni che sollevano e che riguardano temi assai scottanti in America. Il primo di questi temi riguarda le dichiarazioni che la Gay ha reso, insieme ad altre due presidenti di università (rispettivamente UPenn e MIT), a proposito delle proteste anti-semite sui campus americani. Interrogata da un membro del congresso, la repubblicana Elise Stefanik (laureata a Harvard), sull’ammissibilità o meno di manifestazioni anti-semite sul campus, invece di chiarire che erano in violazione del codice comportamentale dell’università e dunque da sanzionare, la Gay aveva risposto come le sue colleghe con un laconico, e inaccettabile, “dipende dal contesto”. Accusata di anti-semitismo e di applicare due pesi e due misure (la political correctness vale solo per certe fasce della popolazione? E solo per certe etnie?), la Gay si è ritrovata in un angolo dal quale, nonostante tutti i tentativi, non è più riuscita a uscire. Aspramente criticata dalla destra e da alcuni milionari ebreo-americani (il cui capofila è Bill Ackman che non passava giorno senza consegnare un tweet al vetriolo sulla questione), la Gay ha continuato a godere del supporto di molti professori e del Consiglio di Amministrazione dell’Università – in particolare del suo presidente, una donna, Penny Pritzker che era stata Secretary of Commerce nella seconda amministrazione Obama.

L’oggetto del contendere non è solo quello, pur infuocato, dell’antisemitismo ma anche l’altro (ugualmente esplosivo) relativo alla libertà di parola, il free speech. Come se non bastasse, si è aperto anche un altro fronte. Questa volta tutto accademico – tale almeno in partenza. L’attenzione sulla Gay ha portato i riflettori anche sulla sua carriera accademica e sulle sue pubblicazioni, che sono apparse alquanto magre per la quantità e discutibili per la qualità poiché, a partire dalla sua tesi di dottorato, sono emerse diverse istanze in cui avrebbe preso a prestito intere frasi (con piccole modifiche lessicali) da altre pubblicazioni senza che queste venissero opportunamente citate. Le sono state rivolte nuove accuse, molto pesanti. Plagio, un’accusa gravissima, soprattutto in America. In questa istanza, alla Gay è venuto in aiuto il New York Times, che in un lungo articolo ha derubricato il presunto plagio a “linguaggio duplicativo”. In berlusconese, si sarebbe parlato di bagatella. Per i detrattori, invece, vera benzina sul fuoco e ulteriore prova del fatto che la Gay avrebbe dovuto dimettersi, non tanto per salvare la propria reputazione, considerata già irrimediabilmente compromessa, quanto quella dell’istituzione che rappresenta. Come fa Harvard a rimanere l’università più prestigiosa al mondo, e come fa a pretendere dagli studenti l’integrità accademica se questa sembra essere venuta meno ai vertici dell’Istituzione?

Come potrà ripristinare la sua reputazione e il lustro che la caratterizzano da sempre? Per una Università nel cui motto c’è la parola “veritas”, come valore accademico e morale, si capisce che la cosa ha un certo peso specifico. Le accuse di plagio hanno presto abbandonato il campus e si sono riverberate su un’altra questione che è politica, spinosa e cruciale, la cosiddetta DEI – Diversity, Equity and Inclusion (diversità, equità e inclusione). L’America si sta chiedendo che fine abbia fatto la meritocrazia, il fiore all’occhiello dell’American Way. Bill Ackman, in un tweet di sole poche ore fa, ricostruisce l’anamnesi della questione (dal suo punto di vista). Spiega che le politiche DEI, che permeano l’intero sistema educativo in America, sono a senso unico e che la diversità nella sua forma più ampia (che includa, come scrive, “diversità di punti di vista, posizioni politiche, etnia, razza, età, religione, esperienza, background socioeconomico, identità sessuale, genere, educazione ricevuta e altro ancora”) non è quella contemplata dalle pratiche DEI. Secondo queste politiche e secondo l’interpretazione che ne dà Ackman “il grado di oppressione di una persona è determinato dalla posizione occupata in una cosiddetta piramide intersezionale, in cui i bianchi, gli ebrei e gli asiatici sono considerati oppressori, mentre una parte di persone di colore, LGBTQ e/o donne sono considerate oppresse (ed è razzista persino il cambiamento climatico a causa del suo impatto disparato sulle geografie e sulle persone che vi abitano)”. Ackman, il cui post sta ricevendo una enorme attenzione, parla persino di Maccartismo, o di razzismo alla rovescia, e non dice il falso quando afferma che una parola storta può determinare la fine della carriera di una persona nell’America di oggi.

Le dimissioni di Claudine Gay non sono un fatto accademico. Sono un fatto politico che segna un punto di non ritorno nel dibattito pubblico americano. Quelle che, dalla morte di George Floyd in avanti, erano diventate il mantra della sinistra (soprattutto quella estrema), la wokeness e la cosiddetta critical race theory sembrano destinate a una straordinaria revisione. Le strade a questo punto sono due: o la palla tornerà al centro e si schiuderà una nuova fase caratterizzata da un dibattito non più a senso unico, o ciascuna parte si arroccherà ancor di più sulle proprie posizioni – il che sarebbe pericolosissimo in un anno elettorale come quello appena iniziato. A giudicare dalle prime reazioni (la sinistra che accusa la destra di aver montato una campagna razzista contro la Gay, e la destra che parla di razzismo alla rovescia), la seconda ipotesi sembra la più probabile.