Posta elettronica, chat e messaggerie sono corrispondenza: la Corte costituzionale ha accolto il conflitto di attribuzione proposto dal Senato nei confronti della procura della Repubblica presso il tribunale di Firenze, nella parte in cui era diretto a contestare la legittimità dell’acquisizione di corrispondenza di Matteo Renzi. La Consulta, con sentenza numero 170, redattore Franco Modugno, ha dichiarato che la procura “non poteva acquisire, senza preventiva autorizzazione del Senato, messaggi di posta elettronica e whatsapp del parlamentare, o a lui diretti, conservati in dispositivi elettronici appartenenti a terzi, oggetto di provvedimenti di sequestro nell’ambito di un procedimento penale a carico dello stesso parlamentare e di terzi”. Ne abbiamo parlato con il professor Alfonso Celotto, Ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università Roma Tre e dal 2004 è avvocato cassazionista.

La Corte Costituzionale ha deciso sul conflitto di attribuzione tra Senato e Procura di Firenze, stabilendo che «La procura non poteva acquisire, senza preventiva autorizzazione del Senato, messaggi di posta elettronica e Whatsapp del parlamentare, o a lui diretti, conservati in dispositivi elettronici appartenenti a terzi». Ci spiega cosa significa? 

Il fatto che anche i messaggi di posta elettronica, e quelli di Whatsapp, rientrano nelle forme di comunicazione protetta dagli articoli 15 e 68 della Costituzione. Rientrano quindi nell’immunità e nell’insindacabilità parlamentare. Il parlamentare può essere intercettato, fatto oggetto di sequestro e messo sotto processo solo con le dovute garanzie costituzionali che si riferiscono alle nuove forme di comunicazione. Proprio perché la Corte Costituzionale ha evidenziato come queste nuove modalità di comunicazione sono comunicazione personale e vanno sotto garanzie costituzionali.

C’è stata una violazione della Costituzione. I pm fiorentini non avrebbero da subito, per prudenza, richiedere l’autorizzazione alla camera di appartenenza?

La violazione della Costituzione viene accertata adesso ma c’era un dubbio. Perché tradizionalmente non era certo che i messaggi digitali rientrassero nella corrispondenza sottoposta a tutela costituzionale. I Pm fiorentini avrebbero potuto, nel dubbio, chiedere l’autorizzazione. Ma hanno preferito non chiederla perché non era un caso palese. Se fosse stato un caso palese non si sarebbe arrivati dopo tre o quattro anni a questo pronunciamento della Corte costituzionale.

Come cambierà questa sentenza il rapporto fra procure e parlamento? Come inciderà sulle prerogative parlamentari?

È una sentenza importante che crea un precedente importante. Chiarisce che la garanzia della tutela della corrispondenza riguarda tutti i mezzi digitali e questo rafforza e garantisce le prerogative del Parlamento. A mio avviso è una sentenza decisiva per avere un quadro aggiornato e meglio definito delle prerogative, del perimetro delle competenze parlamentari. È una garanzia d’uso dello strumento parlamentare, dunque un rafforzamento.

A giudizio del giurista, la Costituzione e le disposizioni collegate sono chiare, quanto al perimetro delle indagini che riguarda i parlamentari?

La Costituzione cerca di dare garanzie chiare sull’applicazione della tutela dell’immunità parlamentare secondo l’articolo 68. Il vero problema è che la garanzia dell’immunità, nella formulazione precedente, che risale allo Statuto albertino, riguardava solo le attività che si svolgevano nel “recinto parlamentare”. Copriva solo le attività interne al luogo fisico del Parlamento. La Costituzione ha eliminato questa delimitazione, anche perché già nel 1946-1947 la politica veniva fatta nei territori. E si è capito che l’attività parlamentare è estesa in tutti i luoghi in cui il parlamentare può operare.

E ai due Pm che hanno sbagliato? Come sempre, una scrollata di spalle e una lavata di mani?

È una vicenda intricata e complessa. Non spetta a me giudicare i pubblici ministeri. Adesso vedremo come si svolgerà il processo.

Aldo Torchiaro

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