L’insorgere imprevisto della pandemia scatenatasi all’inizio del 2020, che ho definito, non a caso, come l’11 settembre del mondo, ha costituito un fatto destinato ad avere conseguenze sugli equilibri geopolitici globali. In particolare, la pessima gestione dell’emergenza sanitaria ha drasticamente indebolito le già vacillanti leadership di Trump e di Netanyahu, ed ha messo a dura prova le economie del Golfo, fiaccate dal crollo del prezzo del petrolio.

Il Covid è stato, dunque, l’elemento scatenante che ha fatto incontrare tre grandi debolezze. Esse, alla ricerca di un rilancio delle proprie quotazioni, hanno partorito un compromesso di natura bilaterale, che permettesse a Trump e a Netanyahu di tentare un recupero di popolarità interna e agli Emirati di sperare in un rilancio della propria economia grazie ad una pacificazione, almeno apparente, con Israele.

L’individuazione del nemico comune non è stata, poi, particolarmente difficile. Per ragioni diverse, ma convergenti, infatti, l’Iran rappresenta per i tre attori in gioco uno straordinario punto di incontro, sostanziale e mediatico. A Washington, parlare di Teheran è persino peggio che parlare di Mosca: Trump individua quindi nella lotta all’Iran la possibilità di puntellare la sua traballante leadership, proseguendo, del resto, nell’opera di demolizione degli accordi siglati da Obama. Per Israele, Teheran è da sempre il nemico giurato, più ancora che Riyad, anche per il sostegno ad Hamas. Gli Emirati sommano all’eterna lotta interna all’Islam tra sunniti e sciiti, l’insofferenza verso il crescente protagonismo iraniano nel Golfo.

Anzitutto, andrà chiarita l’interpretazione di quanto previsto per la Cisgiordania: stop definitivo delle annessioni da parte di Israele o semplice sospensione? Le prime reazioni da parte palestinese e sciita, ma anche turca, non lasciano certo presagire scenari di reale pacificazione. È indubbio che il grande tattico Putin stia facendo il gioco di Trump, che egli continua a considerare l’interlocutore migliore che il suo Paese possa avere oltre Oceano: è altrettanto chiaro che l’oggettiva crescente difficoltà di rapporti interni alla Nato tra Washington e Ankara suoni come musica per le orecchie del presidente russo. Per lui, dunque, ancora una situazione win-win, anche se dovrà guardarsi dalle reazioni dell’amico-nemico Erdogan. Poiché Teheran non starà certamente con le mani in mano, è, purtroppo, da prevedersi un innalzamento della tensione sul fronte del terrorismo sciita.

Ai margini dell’accordo appaiono due soggetti tradizionalmente assai attivi nel tentativo di mantenere i fragili equilibri nella regione medio-orientale: l’Ue, colta di sorpresa, e l’Egitto, ormai indebolito e ripiegato sulle proprie contraddizioni interne. Restano, infine, almeno tre aree nelle quali si potrebbero avere conseguenze anche drammatiche in termini di inasprimento dei conflitti già in corso: la zona-cuscinetto tra Iran e mondo sunnita, costituita da Siria e Iraq, lo Yemen e la Libia.

In prospettiva futura, infine, bisognerà anche capire come si muoveranno la Cina, sempre più influente anche nell’area medio-orientale, e l’India, con la quale Israele ha avviato da tempo un rafforzamento della collaborazione. Non sembra, purtroppo, che i sottoscrittori dell’accordo si siano posti il problema di valutare tutti questi scenari: probabilmente a loro basta tirare avanti pochi mesi, poi si vedrà. Mi auguro, ovviamente, che non sia così, nell’interesse di tutti.