L'incontro a Pordenone
Il monito di Pasolini, strumentalizzato da tutti non portava la pace ma la destabilizzazione

L’altro giorno in un affollato (pur con il distanziamento!) teatro di Casarsa del Friuli (duecento persone sedute, una poltrona sì e una no), all’interno di Pordenonelegge – manifestazione culturale che svolge una eroica azione di resistenza – e su iniziativa del Centro studi Pasolini, si è svolto un bell’incontro su Pasolini e il giornalismo, in occasione della pubblicazione degli atti di un convegno. Di Pasolini resteranno certamente i primi tre o quattro film, almeno fino alla Ricotta, alcune pagine di Petrolio, il romanzo postumo Amado mio, le recensioni letterarie e gli interventi giornalistici “corsari”.
Dopo una ampia ed esaustiva introduzione di Luciano De Giusti, che ha curato gli atti, ho avuto modo di intervenire anche dialogando con Marco Damilano, direttore dell’Espresso. Gli ho ricordato tra l’altro che nelle famose cene ai Parioli in Petrolio c’erano anche un redattore dell’Espresso e un esponente politico del Pci. Pasolini, che pure si dichiarò “comunista” fino alla fine, aveva capito benissimo come il progressismo, e il marxismo stesso, erano diventati strumento di carriera e di potere. Inoltre ho osservato che per Pasolini la bestia nera era l’ironia, non l’ironia socratica o romantica o quella grande-borghese venata di malinconia di Thomas Mann, ma l’ironia piccolo-borghese, la riduzione maligna, l’attitudine a dissacrare, svalutare, dileggiare ogni cosa.
E in ciò trasmissioni televisive pur innovative e almeno nelle intenzioni anticonformiste come Blob – che mette sullo stesso piano stragi, pettegolezzo sessuale, cafonaggine, bambini denutriti, esibizionismo mediatico, fedi religiose, kitsch dello spettacolo, etc. – o la stessa Propaganda live avrebbero potuto finire sotto i suoi strali. Benché, ripeto, tali trasmissioni contengano anche gli anticorpi morali in grado di reagire a quella tendenza. Tutto sta capire da dove nasce l’ironia, e se è impastata di pietas o di cinismo. Una volta Nicola Chiaromonte ha osservato che Longanesi era così soddisfatto delle sue battute che avrebbe voluto che il fascismo restasse in piedi soltanto per fargliele scrivere, mentre Flaiano desiderava che non ci fosse il mondo che alimentava i suoi epigrammi acuminati. Ma nella discussione è emerso un elemento decisivo per capire Pasolini. Sappiamo che è stato strumentalizzato da tutti: dai cattolici, dalla destra, dalle associazioni gay, dalla sinistra. Il punto è che tutti prendono solo ciò che gli è utile cancellando la caratteristica prima dello scrittore: il suo assumere interamente la contraddizione, senza mai occultarla (il suo livre de chevet erano i Pensieri di Pascal: il pensiero tragico, non quello dialettico e storicistico). Pasolini sempre destabilizza i propri lettori.
Quando a 16 anni non vedevo l’ora che uscisse il Tempo settimanale in edicola (credo il giovedì) per leggermi la sua rubrica, “Il caos”, una volta mi sono imbattuto in un articolo che mi illuminò e allo stesso tempo mi fece incazzare moltissimo, come spesso succedeva con i suoi interventi. In sostanza diceva che c’è una cosa più eversiva della rivolta, e cioè la rassegnazione. Ma come sarebbe a dire? Erano gli anni della rivolta studentesca e operaia! Come si permetteva? Non ogni rassegnazione beninteso, ma c’è secondo lui una particolare rassegnazione meravigliosamente estranea al potere, e alle sue logiche, alla smania di conquistare il potere e di sostituirsi ai padroni, e in questo capace di ridurre il potere a ciò che è, una illusione. Ora, prendete Roberto Saviano, che come Pasolini “getta il suo corpo nella lotta” (l’espressione era della new left americana), assumendosene coraggiosamente rischi e responsabilità.
Il suo è un impegno esistenziale, fisico, non solo della parola. Però tende un po’ troppo a rassicurare il proprio pubblico, a confermarlo, a convincerlo di stare dalla parte giusta. Leggendo Pasolini invece nessuno si sentiva dalla parte giusta né pacificato. Su questo aspetto ha concordato, nel dibattito a Casarsa, Damilano, parlando di giornalisti “confermativi”. Pasolini appartiene alla famiglia degli Ivan Illich e don Milani: fustiga i suoi lettori, ne demolisce qualsiasi edificante autoillusione. Ilich ad esempio osservò che non possiamo – onestamente – permetterci di dire “I care” parlando dei bambini africani, per la buona ragione che obiettivamente non riusciremmo mai a farcene davvero carico, e anzi con i nostri stili di vita e di consumi involontariamente li condanniamo: dire “I care” è solo ipocrisia.
Pasolini non è venuto a portare la pace ma la spada, a “separare”, come il suo Cristo – severo, profetico, insofferente verso l’ipocrisia – del Vangelo secondo Matteo. Quel Cristo interpretato nel film da Enrique Irazoqui, allora giovane militante antifranchista in giro per l’Europa in cerca di sostegni alla causa, e che una sera a Roma folgorò Pasolini, perché gli sembrò uscito da un quadro bizantino o del Greco. A lui, scomparso la settimana scorsa, voglio dedicare idealmente questo articolo.
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