Al pacifismo che orienta e contamina in modo abbastanza simile certi atteggiamenti dei fronti che si presumono avversi non è per nulla chiaro: ma la pace non è un diritto acquisito. La pace è un fatto che costa. Un fatto tanto più precario quanto meno si è disposti a pagare affinché rimanga un fatto e non si trasformi in una vacua denominazione. Nei due anni della guerra scatenata dalla Russia contro il popolo ucraino abbiamo afflitto le finanze degli italiani depauperandole di risorse corrispondenti al costo di un paio di caffè al mese. Ed è bene ricordare ciò che succedeva là, in Ucraina, mentre qui si confezionavano nobili ragioni di prudenza nell’invio di forniture gravemente sproporzionate per difetto rispetto a quelle inviate da altri Paesi. E quando diciamo altri Paesi non ci riferiamo agli Stati Uniti, le cui capacità di intervento sono ovviamente incomparabili, ma a realtà come la Lettonia o l’Olanda, evidentemente meno impensierite dal pericolo dell’“escalation” (un pericolo notoriamente dovuto alla resistenza ucraina che riconquistava una città, non agli aggressori che ne radevano al suolo dieci).

Varrà la pena di ricordare che mentre Elly Schlein, per non indispettire la base larga di un partito imbandierato d’arcobaleno, diceva che “la pace in Ucraina non si fa con le armi”, laggiù si allestivano i lager nei villaggi depredati e si riempivano le fosse comuni. Varrà la pena di ricordare che mentre Gianni Cuperlo, a passeggio tra le bandiere della pace, lamentava l’inutilità di altri aiuti perché “di armi ne abbiamo già mandate tante”, da laggiù arrivavano le chat dei soldati russi che si davano il cambio nello stupro delle bambine ucraine. Varrà la pena di ricordare il vignettismo di sinistra che equiparava il capo dell’operazione speciale a quello dello Stato aggredito, disegnato con opportuno naso adunco, mentre decine di migliaia di bambini ucraini erano rapiti e destinati a un’educazione un po’ più sana rispetto a quella che avrebbero ricevuto da genitori asserviti al verbo espansionista di Kiev. Varrà la pena di ricordare (perché il problema, appunto, non riguarda solo quella sinistra, anzi) che mentre il collaborazionismo leghista e dei tabloid anti-Nato lavorava sulle trippe degli italiani deplorando l’aumento delle bollette, là, in Ucraina, milioni di persone erano prese per fame, per freddo e per sete nelle città sottoposte alle delizie dell’operazione speciale. Ora, dopo più di due anni, allarghiamo le braccia davanti all’inevitabilità dell’avanzata russa, e la notizia che in Ucraina arruoleranno anche i venticinquenni è accolta da alcuni con la soddisfazione di chi assiste fregandosi le mani all’esaurirsi delle forze di resistenza, e da altri con il cipiglio moraleggiante sul cinismo del presidente ucraino che non esita a usare una generazione di giovani come scudo delle sue sconsideratezze belligeranti.

C’è davvero da domandarsi come e perché si sia arrivati a tanto? Non si tratta solo dell’Italia, ovviamente, perché le inerzie e i pudori che hanno usato il centellino per gli aiuti agli ucraini riguardano un po’ tutti: ma il provvedimento con cui Zelensky chiama alle armi questi altri figli dell’Ucraina aggredita reca la firma di quanti hanno deciso che l’invio di un po’ di fionde e cerbottane fosse abbastanza per salvare l’onore di un Occidente spaesato, incapace di ricordare che i settantacinque anni di pace non sono stati ottenuti con i vagheggiamenti di disarmo universale sulla pelle di chi intanto stava sotto lo scarpone dei tiranni. Sono state quelle inerzie, quelle riluttanze, quella vigliaccheria dell’Occidente a sguarnire le trincee ucraine abbandonate dai soldati senza più munizioni. Sono stati gli affanni parlamentari a ogni votazione sugli aiuti, con la colonna sonora del mugugno progressista e del dispetto sovranista, ad affidare alla solerzia denazificatrice degli aggressori la vita degli ucraini senza difese sufficienti. Potremmo compiacerci del fatto che morirebbero al posto dei nostri, i giovani ucraini in più che fossero mandati a combattere. Ma a mandarceli saremmo stati anche noi, dopo non aver assicurato all’Ucraina l’armamento adeguato perché urgevano altre nobili istanze, e cioè il bisogno di chiamare pace la vittoria dell’oppressore