Dopo il successo anche internazionale di In tutto c’è stata bellezza, Manuel Vilas, uno dei più significativi scrittori spagnoli contemporanei, è andato in giro per il mondo a presentare il suo libro: dalle note composte durante i viaggi compiuti in Europa e nelle Americhe è nata una seconda opera, speculare rispetto alla precedente: La gioia, all’improvviso (Guanda, pp. 413, traduzione di Bruno Arpaia, 19 euro). Il tono è sempre autobiografico con folgoranti monologhi di matrice riflessiva che, scoprendo la sensibilità lirica dell’autore, danno origine a una prosa estrosa di grande fascino capace di oltrepassare le classiche divisioni di genere: a volte sembra di leggere un poemetto, ma tutto resta ben rinserrato all’interno del nucleo narrativo, come un gheriglio dentro la noce; in altri tempi un risultato simile sarebbe rientrato a pieno diritto nella vituperata categoria della letteratura sperimentale, se non fosse per i materiali tematici di portata universale che lo rendono oggi affrontabile da chiunque, lasciando da parte gli appassionati dei cosiddetti gialli. Qui non ci sono commissari, né guardie, né ladri. Nessuna maschera. Nessun intreccio. Fine della suspence. Sin dall’inizio si sa già come andrà a finire. È tutto vero.

Mentre nel primo romanzo al centro si stagliava la mitica figura del padre, rievocato con una dedizione abbastanza unica, tanto più lacerante in considerazione della natura ordinaria dell’uomo (a pensarci bene non era poi un granché, come la gran maggioranza di noi), in quest’ultimo testo prendono campo la compagna americana (Mo, diminutivo di Mozart) e i due figli (Bra, come Brahms e Va, per abbreviare Vivaldi), sui quali il protagonista proietta le proprie ansie ed inquietudini, loro così carichi d’energia propositiva, lui frenato dal disincanto, riuscendo a trasferire nei ragazzi l’affetto che ancora oggi prova nei confronti dei suoi genitori. In questo ideale passaggio di consegne registriamo il fondamento strutturale del lavoro di Vilas, che gli consente di collocare il diario in una dimensione non intimistica, come potrebbe sembrare a prima vista.

In realtà attraverso l’amore raccolto dal padre (soprannominato Cary Grant: «I tuoi viaggi più lunghi erano di trecento chilometri; i miei sono di settemila; eppure i tuoi viaggi sono leggendari e meravigliosi; i miei no») e dalla madre (chiamata Katharine Hepburn: «Una terra che ha colonizzato la mia terra, e non mi ha mai concesso l’indipendenza, né io l’ho chiesta») e trasmesso ai figli (indimenticabile la dichiarazione, volutamente struggente, a Bra, compresa nel capitolo 84, su una spiaggia del mar Cantabrico), questo scrittore torna ad esprimere, con la sensibilità moderna che lo contraddistingue, il sentimento metafisico del tempo, secondo la perenne indicazione di Antonio Machado, uno dei suoi maestri, alla cui tomba, situata a Collioure, in Francia, molto vicino al confine iberico, non tralascia di rendere omaggio in una delle ultime incandescenti pagine.

Eppure l’euforia presente sin dal titolo di questo romanzo (Alegrìa, che noi potremmo tradurre dallo spagnolo in napoletano, con Pino Daniele, senza provocazione di sorta, Alleria), risulta debitamente contenuta e ridotta, dal momento che il ruolo principale viene assunto dalla depressione, chiamata Arnold Schonberg, maliziosamente alludendo, ci piace pensarlo, alla tristezza della musica dodecafonica. Ogni sera il protagonista deve fronteggiarla ricorrendo ad armi chimiche (pasticche di benzodiazepine, maledette santarelline) o estetiche (antiche memorie in stile Federico García Lorca) con risultati non sempre esaltanti. I centosette capitoletti di poche pagine ciascuno si susseguono a ritmo serrato producendo piccole emozioni, destinate presto a svanire, come aspirine sciolte nell’acqua. Lo scenario è prevalentemente quello degli alberghi di lusso in città variamente fascinose: Barcellona, Zurigo, Chicago, Torino, Roma, Venezia.

I cambi di stanza, all’interno del medesimo hotel, sono frequenti. Lo scrittore vola da una parte all’altra dell’oceano Atlantico, nell’ormai leggendaria epoca pre-Covid, libero come una libellula ma fragile e indifeso al pari di qualsiasi essere umano, dalla Columbia al Portogallo, alternando momenti di consapevole saggezza quasi ieratica («Bisogna accettare il luogo in cui siamo arrivati nella vita, qualunque sia. Bisogna accettare le responsabilità») a bilanci di apparentemente inconsolabile sconforto («Quella voglia di gettarmi in acqua aveva origine nell’impulso all’estinzione»).

Ne deriva uno dei ritratti più malinconici e tuttavia intriganti che ci sia mai capitato di leggere sullo scrittore/uomo in età matura (Manuel Vilas è nato a Barbastro, sui Pirenei, nel 1962), colto sul punto della prima discesa dal crinale della massima potenza, come gli capita di riflettere una sera indiavolata a Cartagena de Indias, davanti al Mar dei Caraibi, quando, nello splendore della fiesta spumeggiante, incrociando lo spettro del padre, ripensa alla vecchia storia del picador, chiamato a contenere “l’energia cosmica” incarnata dal toro. La missione “sinistra e criminale” del cavaliere è quella di “rubargli forza” affinché “a poco a poco si pacifichi.” «Arriviamo alla morte in questo modo”, conclude il padre dall’oltretomba, “avendo perso la forza, rimasta nella picca insanguinata. La picca insanguinata, non la vedi?, è già in te».

Lo aveva scritto, tanti anni fa, Octavio Paz, sollecitando un suggestivo parallelo fra la storia del Sudamerica e la tauromachia. Lo ribadisce adesso Manuel Vilas, in taglio più basso, quasi lenticolare, su quella che Miguel De Unamuno definì “la tragedia del vivere umano.”