Credo sia arrivato il tempo di aprire un grande dibattito sociale e culturale sulla pervasività delle nuove tecnologie, sull’intelligenza artificiale, la robotica, il cyborg e a tutto quanto costituisce l’infosfera e il lavoro, non tanto per arrivare a una sintesi ma per avere una conoscenza plurale, diffusa che consenta il dibattito e la possibilità di interventi. Sono profondamente convinto, a differenza del lessico comune in voga per rassicurare, che l’uscita dai postumi della pandemia non sarà indolore soprattutto per le persone e i paesi più deboli e che comunque è destinata a riaccendere conflitti di varia natura ed in particolare quelli legati al lavoro, non solo dal punto di vista dell’occupazione ma del senso stesso del lavoro per la vita, per la soggettività individuale e sociale.

Non basta la resistenza ai licenziamenti , bisogna andare più in profondità. Oggi serve una resistenza interiore e sociale capace di spingere il dibattito, la riflessione e le decisioni politiche sul significato del lavoro e del suo rapporto con la cittadinanza, l’uguaglianza e la democrazia. Non possiamo superare o sottrarci a questo confronto con semplici dichiarazioni funzionali, sulla necessità della formazione, della garanzia del reddito, del salario, né possiamo limitarci a dire che il lavoro che c’è va difeso e tutelato, ma vivendo dentro la cornice di una repubblica che si vuole fondata sul lavoro, la questione presenta aspetti più profondi che investono il piano culturale, etico, valoriale, sociale, economico e politico. Essere fondati sul lavoro significa che l’obiettivo da perseguire è la piena occupazione, un lavoro per ognuno secondo capacità e possibilità individuali.

Dovremmo anche misurarci con il fatto che tradizionali obiettivi sindacali, in questi anni in cui il lavoro ha dovuto attraversare la più grave crisi economico-finanziaria del secondo dopoguerra e recentemente il dramma di una pandemia che ha causato morti e feriti oltre che avere colpito la realtà economica, sono stati messi in fibrillazione e in movimento e hanno perso la loro stabilità. Ecco perché il tanto dichiarato ritorno alla “normalità” e la zona bianca ha il sapore di una mistificazione e pertanto rappresenta un banco di prova, soprattutto per quanto riguarda le tensioni e i conflitti che ora si possono innescare tra le esigenze delle lavoratrici, dei lavoratori, delle loro famiglie e delle imprese tutti chiamati a misurarsi con i nuovi livelli di competitività a livello internazionale, con i nuovi monopoli e con l’avanzare pervasivo delle nuove tecnologie, dell’uso dell’intelligenza artificiale , della robotica, degli algoritmi e delle bio e nano-tecnologie.

Una vera tensione e un conflitto sociale su queste questioni, senza dividerci tra tecno-ottimisti e tecno-pessimisti, sarebbe auspicabile e non da temere, poiché sarebbe il segno che la questione del lavoro ha raggiunto una centralità sociale ineludibile. Bisogna riprendere e aggiornare la lezione schumpeteriana sullo sviluppo economico e avere presente che l’economia capitalista è essenzialmente dinamica, nel senso che genera al suo interno processi evolutivi. Il neoliberismo affidando lo sviluppo alle dinamiche di mercato è stato un progetto fondamentalmente anticapitalista che con le sue logiche deterministiche ha inibito la crescita e aumentato le disuguaglianze. In questo cambio d’epoca diventa pertanto necessario individuare i fattori che possono rompere la latente e ricercata dimensione di stazionarietà che il termine “normalità” evoca. Vanno accolte e proposte nuove prospettive.

In questa direzione l’evoluzione delle tecnologie, l’avanzare del Cyborg, della robotica e dell’intelligenza artificiale possono rappresentare la vera novità con cui confrontarsi, anche perché non incidono solo sulle dinamiche del lavoro e dell’economia ma tendono a creare un nuovo ambiente di vita, di relazioni e a modificare la società e la stessa soggettività individuale. Avere la consapevolezza che siamo collocati in una fase di “distruzione creatrice” e che stiamo attraversando una vera rivoluzione totale aiuta ad elaborare nuove strategie emancipatrici. Bisogna avere il coraggio di assumere l’indicazione di Luciano Floridi che ci dice che siamo collocati in un nuovo mondo: l’infosfera. Dunque se inconsapevolmente siamo approdati sulle spiagge di un nuovo mondo diventa necessario e vitale che molto del pensiero, della teoria e della prassi sindacale cambi.

Il sindacato è pertanto chiamato a collocarsi nel nuovo ambiente e a confrontarsi con gli artefatti che formano il nuovo mondo e le coscienze delle persone come le tecnologie informatiche, i nuovi media, la realtà del Cyborg, dell’intelligenza artificiale, della robotica e con chi fornisce e possiede i dati che alimentano e nutrono l’intelligenza artificiale. Tuttavia, se si guarda più da vicino vediamo che gli algoritmi non sono neutrali ma dipendono dai loro dati originali. I dati con cui l’algoritmo viene inizialmente “addestrato”, con cui “impara”, possono contenere delle distorsioni e dei pregiudizi che si ritroveranno nell’elaborazione finale e questo è il punto reale del confronto e del conflitto futuro cui bisogna attrezzarsi. Si deve anche tenere presente, come la pandemia ci ha mostrato, che non tutte le attività lavorative, operative e manuali sono sostituibili con le tecnologie, ma che esistono dei lavori essenziali, necessari alla convivenza e al buon funzionamento sociale che devono essere esercitati dalle persone. Questo esige che la nuova organizzazione operativa e produttiva post-pandemia sia più complessa, articolata e dotata dei necessari intrecci e flessibilità e spazi di reale partecipazione. Il nuovo esige più democrazia.

La cosiddetta rivoluzione 4.0 si sta rivelando tutt’altro che un processo lineare, omogeneo e standardizzato e che pertanto lascia molto spazio all’azione e alla creatività sindacale. Uno spazio che si può occupare solo se si attiva un profondo aggiornamento della teoria e della prassi che consenta al sindacato di muoversi con agilità e tempestività nell’infosfera, nelle nuove forme di produzione, di organizzazione del lavoro, nei servizi pubblici e privati sempre più e costantemente riorganizzati dal digitale, ma anche di tenere conto della nuova soggettività delle persone.

Nulla più, nell’agire economico e nel lavoro, dipenderà da determinismi, automatismi e tradizioni, ma tutto tenderà a svilupparsi nella sfera dell’incondizionato e del decostruibile. Questa a prima vista appare come una prospettiva piena di rischi, ma che può essere un buon investimento per il lavoro organizzato e generare un interessante ritorno in termini di tutele, di diritti e, perché no, di riconoscimento totale e imperativo della dignità di ogni singola persona, per come essa è, per ciò che crede e da qualsiasi angolo della terra proviene.