“Quando i fatti cambiano, cambio idea.” La frase, attribuita erroneamente a John Maynard Keynes, è un antidoto a quell’abitudine un po’ qualunquista di tacciare di opportunismo o incoerenza chi sceglie di ricalibrare le proprie posizioni sulla base di un’analisi dell’evidenza. Alla luce del summit di Washington appena concluso, c’è molto nella nostra percezione dell’Alleanza Atlantica da rileggere in quest’ottica. Fino al 24 febbraio 2022, i più davano la Nato per prematuramente defunta o irrilevante. Macron, col chiodo fisso della difesa europea, parlava di un’organizzazione in stato di “morte celebrale.” Trump, interpretando per una volta un sentimento bipartisan negli Stati Uniti, ha sempre minacciato di svincolare l’America dagli alleati che non si impegnano al famigerato 2% del Pil in spese militari.

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, è palese come nessun accordo di difesa bilaterale possa sostituire il principio fondante di mutuo soccorso della Nato. L’articolo 5 del Patto Atlantico è paradossalmente stato invocato una sola volta nella storia dell’Alleanza, proprio dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Ma per tutti gli altri rappresenta una polizza sull’impegno dell’America a intervenire in Europa in caso di attacco esterno. Siamo tornati al punto di partenza dopo un excursus esistenziale durato circa vent’anni nei quali la Nato, uscita vittoriosa dalla Guerra Fredda e allargatasi a Est, era in cerca di una nuova missione. C’erano quelli che auspicavano una “Nato globale”, in pratica a rimorchio di quell’ossessione statunitense di esportare la democrazia che si insabbiò tragicamente nel Medio Oriente. E c’erano gli “Article fivers”, ovvero i duri e puri che rivendicavano la raison d’être di difesa collettiva degli alleati. Quest’ultimi hanno avuto ragione, ma non senza travagli.

Il summit a Bucarest

L’episodio più penoso: il summit dell’alleanza a Bucarest nel 2008. In quell’occasione George W. Bush – in piena trance neoconservatrice – spingeva per aprire le porte dell’Alleanza a Georgia e Ucraina, le cui cosiddette rivoluzioni colorate già da tempo vacillavano. Merkel e Sarkozy si opposero, chiaramente influenzati da quel riflesso pavloviano filorusso che Francia e Germania (e Italia) si trascineranno fino al 2022. Il risultato fu una porta socchiusa, che il diplomatico inglese Robert Cooper non esita oggi a definire un risultato di monumentale incompetenza. Le vicende del 2008, con la Russia che invadeva la Georgia quattro mesi dopo il summit, confermano al di là di ogni ragionevole dubbio come furono proprio i tentennamenti della Nato a incoraggiare l’imperialismo russo. L’ambiguità ha invece tenuto viva l’eterna polemica sulle velleità espansionistiche della Nato ai danni di Mosca come casus belli della situazione attuale. Il punto dirimente che ci siamo trascinati fino al vertice di questa settimana rimane quello di come formulare l’allargamento dell’Alleanza.

L’opzione che cozza con i signori della guerra

Prendere impegni vincolanti con Kyiv nella situazione attuale rischierebbe di corroborare lo spettro paventato dagli anti-atlantisti di mezzo mondo: quello dell’allargamento del conflitto. L’alternativa sarebbe quella di dare una data di scadenza entro la quale l’Ucraina accederà alla Nato. Anche questa opzione cozza con i signori della guerra e comporterebbe una spinta verso le pretese territoriali di Mosca in cambio di protezione del resto dell’Ucraina. Al di là dell’opportunità politica, c’è poi una questione di logica: se l’adesione è basata su criteri oggettivi, è impossibile fare promesse finché quei criteri non sono effettivamente assolti. Il paradosso rimane irrisolto: l’Alleanza questa settimana ha fatto un altro passettino, dichiarando come l’adesione dell’Ucraina sia “irreversibile”, ma senza dare scadenze. Mosca prevedibilmente rispolvera il canovaccio della minaccia americana ai suoi confini. L’allargamento della Nato è come il proverbiale gatto di Schrödinger: è vivo e morto allo stesso tempo.

Fabrizio Tassinari

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