La Nato celebra i suoi 75 anni a Washington con un summit che arriva in una delle fasi più complesse e delicate della vita dell’Alleanza atlantica. Sul tavolo del vertice ospitato da Joe Biden, che ieri ha parlato della “più forte alleanza difensiva della storia”, l’Ucraina resta il tema più urgente. Come del resto lo è da due anni. Il conflitto non accenna a diminuire di intensità, e lo confermano sia i bombardamenti compiuti dai russi in questi giorni, sia le avanzate dell’esercito di Mosca nel Donbass la reazione di Kiev con i droni lanciati contro le regioni russe di confine.

Una situazione che resta drammatica, su cui la Nato ha già messo in chiaro una cosa: il sostegno al Paese invaso non è in discussione. Ed è un elemento che in questo periodo assume un particolare significato. Ultimamente, Vladimir Putin ha riacceso la sua agenda diplomatica. Prima ha incontrato Kim Jong-un in Corea del Nord. Poi ha visto sia il presidente cinese Xi Jinping che l’omologo turco Recep Tayyip Erdogan in Kazakistan. Dopo è stata la volta del premier ungherese Viktor Orban, sbarcato a Mosca in quella che il magiaro considera una sua “iniziativa di pace”, e che è servita soprattutto allo zar per manifestare ancora una volta le sue intenzioni nei riguardi dell’Ucraina. E infine il presidente russo ha accolto nella sua capitale il primo ministro indiano Narendra Modi, che si è anche lui candidato come mediatore tra Kiev e Mosca.

L’obiettivo del Cremlino

L’obiettivo del capo del Cremlino appare chiaro: fare vedere all’Occidente di non essere isolato. Ma l’immagine dell’attacco all’ospedale pediatrico di Kiev ha mostrato anche l’altro volto, quello di un conflitto che non lascia scampo e di una Russia che non appare incline a cambi di marcia (ieri spiccato anche il mandato d’arresto per Yulia Navalnaya, moglie in esilio del dissidente Aleksei). E la Nato prova ora a fare di nuovo quadrato. L’obiettivo di Jens Stoltenberg, al suo ultimo vertice prima di lasciare l’incarico di segretario generale a Mark Rutte, è quello di consolidare gli aiuti militari a Kiev e di rafforzare il piano per l’Ucraina racchiuso nei suoi cinque punti. Cinque pilastri che prevedono un comando in Germania per la gestione degli aiuti, un impegno generale a mantenere questo livello di forniture per almeno un altro anno, il sostegno finanziario minimo all’Ucraina e il rilancio dell’invio di armi e sistemi di difesa per il Paese invaso.
Mentre sulla futura adesione alla Nato, l’idea è quella di mantenere una procedura “irreversibile”, anche se su fattibilità, tempi e modalità di approccio, restano enormi punti interrogativi. L’impressione, secondo molti analisti, è che Stoltenberg stia cercando di sganciare gli aiuti a Kiev dal preponderante peso degli Stati Uniti. E questo soprattutto perché per il prossimo futuro aleggia inevitabilmente il “fantasma” di Donald Trump. Il repubblicano ha sempre assicurato di volere arrivare rapidamente alla pace tra Russia e Ucraina. E la sua antica scarsa simpatia nei confronti della Nato rischia di essere una spada di Damocle sul futuro del blocco occidentale e del sostegno a Kiev. L’allarme è scattato da tempo nei circuiti atlantici e nelle cancellerie europee.

L’arrivo di Zelensky

Ieri, a Washington è arrivato anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ricordando la sua lotta “per ottenere più difesa antiaerea” e “più aerei F-16”. Ma è chiaro che il leader del Paese invaso voglia soprattutto comprendere quali possano essere le garanzie date dall’Occidente per il futuro del conflitto, visto che le perdite aumentano e i raid russi stanno distruggendo le infrastrutture su tutto il territorio nazionale, destando non poche paure per il prossimo inverno. I leader europei e il presidente Usa devono dunque dare delle risposte. Ma non è un mistero che arrivino più o meno tutti in condizioni di debolezza, fiaccati in larga parte dai risultati elettorali o – per quanto riguarda Biden – da una durissima campagna presidenziale. Ieri il Wall Street Journal ha dipinto un quadro a tinte molto fosche della situazione politica nel Vecchio Continente, segnalando che le ultime tornate elettorali hanno messo a nudo Paesi frammentati, capi di governo di Stato con leadership sempre più fragili, e un consenso che sembra sempre più rivolto a posizioni molto diverse rispetto a quelle dell’agenda atlantica. Segnali che devono essere tenuti in considerazione, così come le divisioni interne all’Occidente. Quelle su cui Putin non vede l’ora di entrare a gamba tesa appena ne ha l’occasione.