Social spin
L'indignazione al cubo
In nome del popolo dei follower, le sentenze della ‘caverna digitale’: basta uno scontrino e il ristorante di turno è condannato…

È sufficiente una foto. A volte meglio se sfocata perché così acquista la certificazione dell’autenticità a prescindere. Basta postare uno scontrino in una chat di WhatsApp oppure meglio se pubblicato su un account di qualsivoglia social e non è necessario che sia per forza quello di influencer con una platea milionaria di seguaci, per ottenere una condanna. Immediata, con il massimo della pena e senza alcuna possibilità di appello. Una condanna morale, civile, politica o imprenditoriale, a seconda dei casi che affidiamo incautamente all’indignazione digitale. Nei processi sommari che si consumano velocemente sulle piattaforme la fase del dibattimento, quella in cui in un procedimento penale si forma la prova grazie al contraddittorio tra le parti che si confrontano a colpi di documenti e testimonianze, è completamente azzerata. Non serve, non è richiesta, non interessa a nessuno. I processi a mezzo social contemplano e vivono solo di sentenze emesse in nome del popolo dei follower.
Non ci sono indagini, non c’è un rinvio a giudizio e tanto più un’udienza preliminare, al contrario, nelle Procure e nei Tribunali della rete invece siamo soltanto attratti e catapultati in uno vortice di indignazione al cubo, spinti a spingerci dai commenti della giuria popolare dei follower sempre più in là nella sfida della denigrazione e nel dovere immorale di contagiare i nostri simili. È l’algoritmo del pubblico ludibrio a decidere chi è il colpevole da linciare e chi è la vittima che merita una solidarietà tout court. Non ci importa perdere tempo a capire il perché, men che mai siamo interessati a comprendere il contesto, così come non ci sfiora minimamente il dovere e la bellezza del dubbio o indagare anche solo superficialmente le ragioni degli imputati digitali. A noi preoccupa invece legittimare la nostra identità e reputazione digitali osannando il puritanesimo delle shit storm.
Perché – come scrive Byung Chul Han in Infocrazia, le nostre vite manipolate dalla rete – “mentre pensiamo di essere liberi, oggi siamo intrappolati in una caverna digitale” che ha il (de)merito di farci sentire al riparo dalle incertezze e dalla precarizzazione delle nostre vite reali. Essere dei follower ci permette di “prendere parte a una eucarestia digitale”, di appartenere orgogliosamente a una tribù che non ci emargina, che ci fa sentire importanti, che fa battere l’elettrocardiogramma del nostro account, fino a quando beninteso, saremo disponibili a uniformarci alle scie dell’odio, alle sottoscrizioni gratuite di malvagità.
Nelle società delle piattaforme non serve più la P38, non occorre sparare, è sufficiente il T9 del nostro smartphone per continuare la pedagogia del colpire uno per educarne cento, anzi, grazie alla pervasività della rete, basta colpirne uno per educare tutti gli altri.
Questo è successo già migliaia di volte, con danni materiali e biologici che ancora non hanno trovato una seria e compiuta cornice di tutela giuridica, e si è ripetuto ancora qualche giorno fa con la gli scontrini di ristoranti e bar, dalla Liguria alla Sicilia, dalle sponde del lago di Como a quelle delle spiagge della Sardegna, postati come prova inconfutabile di colpevolezza che è tale perché inondanti dai cavalloni di merda digitale e subissati dai gavettoni di odio da ombrellone.
Purtroppo, si ripeterà ancora nelle prossime ore, con altri video e con nuove foto e la nostra coscienza resterà pulita solo perchè alle spalle del giudice influencer campeggia a caratteri cubitali il principio auto-assolutorio “In nome del popolo dei follower”.
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