In questi ultimi giorni la relazione sulla gestione dei beni confiscati presentata dalla Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, presieduta dall’onorevole Claudio Fava, è stata oggetto di due critiche: quella del rettore dell’Università di Palermo Fabrizio Micari, e quella del professore Costantino Visconti, ordinario di diritto penale nell’Università di Palermo, recentemente nominato dal ministro Cartabia nel gruppo di esperti per la revisione della Convenzione Onu di Palermo contro la criminalità organizzata. Proprio con quest’ultimo proviamo a spiegare le ragioni della contestazione.

Professor Visconti, quali sono gli aspetti della relazione che non condivide e perché?
Ho criticato non solo quella sui beni confiscati, ma anche quella su Montante e su Antoci: quelle che ho avuto modo di studiare. La commissione regionale ha perso l’occasione per fare un buon lavoro, di ricostruzione di eventi e questioni con il metodo dell’analisi politica, molto più pertinente dell’indagine giudiziaria o storica. E invece hanno seguito uno spartito più simile a una sceneggiatura che a un’indagine che si conviene a una commissione parlamentare, talora anche in modo anche disdicevole dal punto di vista istituzionale. Le faccio tre esempi. Scegliere come consulente il figlio del procuratore di Caltanissetta mentre la commissione si occupa di indagini condotte da quell’ufficio è un pugno nell’occhio per chi ha a cuore l’autonomia e indipendenza della magistratura e delle istituzioni parlamentari. Oppure far diventare esperto della materia il dott. Pietro Cavallotti, qualificandolo come “imprenditore”, senza dire che lui ha costituito, peraltro legittimamente, un’associazione di “vittime delle misure di prevenzione” perché con provvedimento definitivo la sua famiglia ha subìto la confisca dell’intero patrimonio aziendale (a proposito: mi risulta che alcune aziende, ora di proprietà dello Stato, lavorano ancora molto) e perfino di beni personali. Lo doveva ascoltare in questa veste, e sarebbe stato un gesto nobile e di dialogo con un punto di vista normalmente non preso in considerazione. Per non parlare del caso Antoci: il gip di Messina definisce “farneticanti” le conclusioni della Commissione. O Fava tutela il lavoro della sua commissione e agisce giudizialmente – anche con un esposto disciplinare contro questo giudice – , o si dimette lui. Tertium non datur.

Nella relazione si mettono in evidenza criticità dell’Agenzia dei beni confiscati (mancano risorse finanziare e umane adeguate, ad esempio). Qual è il suo parere in merito?
L’agenzia è un progetto ancora incompiuto: ma lo dicono da tempo e molto meglio gli stessi direttori che l’hanno guidata, Fava scopre l’acqua calda.

Aziende ben avviate sono state restituite in stato di fallimento: in diversi casi gli imputati sono stati ritenuti dalla giustizia completamente estranei alla mafia ma si sono trovati con montagne di debiti delle loro aziende. Come risolvere questo problema?
Lei ha dati statistici al riguardo o parla per sentito dire? Ci saranno casi del genere, indubbiamente, e il nostro sistema prevede meccanismi di accertamento delle responsabilità. Ma bisogna capire che spesso non ci si intende bene su cosa significa “aziende ben avviate”: spesso si tratta di aziende tutt’altro che floride la cui “legalizzazione” nel campo del lavoro e degli altri oneri imposti quando vengono amministrate dallo Stato le fa andare in crisi. In ogni caso, gli imprenditori a cui è stato sottratto il patrimonio ingiustamente hanno tutto il diritto di farsi risarcire. Certo, se fosse capitato a me, avrei indossato l’elmetto per avere giustizia sotto tutti i profili.

Come si risolve il conflitto tra «l’antimafia dei fatti» e quella «delle star»?
Studiando, confrontandosi in modo pluralistico, e logorandosi sui mille dubbi e interrogativi che ancora affollano il passato e l’attualità senza pensare che si è più bravi e onesti dagli altri. Da questo punto di vista Fava individua bene il problema ma ne fa parte lui stesso… direi a sua insaputa! Ad esempio, come mai la Commissione e il suo presidente non lavorano su una pista che molti analisti considerano fondamentale, il gas? È la chiave di molti misteri irrisolti. Negli anni precedenti allo scandalo Saguto, avevamo due procure a Palermo: una parte inseguiva i soldi di Ciancimino e arrivava perfino a scoprire la vendita delle reti siciliane a una Holding spagnola per 105 milioni di euro (quelli dichiarati); un’altra procura, invece, trasforma il figlio del mafioso corleonese in testimone chiave nel processo sulla trattativa. Ebbene, si sappia che attorno ai miliardi spesi per la metanizzazione della Sicilia (e di tutto il sud) ruotano gli interessi delle più importanti famiglie imprenditoriali, mafiose e politiche di Palermo. Le confische a Ciancimino jr e alla famiglia Brancato (eredi di un semplice funzionario regionale rivelatosi titolare di ingentissimi capitali legati proprio al gas) se diventeranno definitive, sono soltanto la punta di iceberg.