Ci sono romanzi che sembrano venire da un passato non meglio identificato, fermi in un tempo mitico benché tuttora eloquenti. È sicuramente questo il caso della produzione narrativa di Donatella Di Pietrantonio, e del suo ultimo romanzo, Borgo Sud, edito nei Supercoralli Einaudi, la storia di due sorelle unite in una coppia di solitudini elettive, che hanno esperito il disamore, la maternità senza radici, il matrimonio come sodalizio tra due compagni di fuga. Dopo Mia madre è un fiume (2011), Bella mia (2014) e L’Arminuta, pubblicato in 27 Paesi, tradotto in 25 lingue e vincitore del Premio Campiello, l’autrice torna a raccontare la sua ultima fatica, in corsa per il Premio Strega 2021, ricordando sulle pagine de Il Riformista il dovere della letteratura, ossia narrare il dolore scaturito dall’esperienza di riconoscersi mortali.

“Borgo Sud” continua la storia del suo romanzo precedente, “L’Arminuta”, che in dialetto abruzzese significa “la ritornata, la rivenuta”. Tuttavia, il ritorno presuppone spesso un abbandono – un leitmotiv nel suo corpus letterario – quel senso tragico di lontananza da qualcosa che si è dovuto lasciare andare. Com’è stato invece per lei ritornare dopo tutto questo successo?
Il ritorno su questa storia non è che io lo abbia proprio deciso. Un po’, sì, era già nelle mie intenzioni iniziali, scrivere delle due sorelle fino alla loro mezza età, una fase di vita vicina alla mia attuale. Un po’ mi è capitato che, alla fine dell’Arminuta, stranamente sentissi di non essermi veramente separata dai quei personaggi. Di solito, dopo aver consegnato il libro all’editore, ritiro pian piano i miei investimenti emotivi dai personaggi e dalla storia, invece con loro due questo non capitava, era come se fossi rimasta in debito con loro. Mi sono sentita in qualche modo chiamata, perché avevo raccontato il trauma che avevano vissuto nella loro famiglia di origine, ma mancando di raccontare le conseguenze, come si attraversa la vita adulta portando sulle spalle il peso di questo vuoto originario.

E lei a cosa ha rinunciato per portare avanti questa storia?
Continuare a scrivere di queste due protagoniste ha comportato necessariamente rinviare qualcosa che io sento dentro di me e che so che arriverà prima o poi, e cioè un memoir scritto dall’ultima fase della mia vita. Man mano che procedo negli anni, curiosamente pospongo questo progetto, ma so che prima o poi riprenderò la prima persona su un materiale strettamente autobiografico. Per quanto, poi sappiamo sempre che nel processo della scrittura, i materiali si mescolano, si impastano e la distinzione tra ciò che è proprio e ciò che è preso dall’esterno diventa difficile.

Ha scritto Manganelli: «L’Abruzzo è un grande produttore di silenzio». Lei ha trasposto questo silenzio topografico nei rapporti di pudore consumati nella violenza di una famiglia. Come si fa a far parlare un territorio riottoso e imprevedibile come l’Abruzzo, in maniera così autentica, pur contando su personaggi inclini al silenzio?
Si fa, avendolo dentro questo territorio. I silenzi non sono sempre buoni e affascinanti, spesso sono complessi, violenti. Sono stata cresciuta nei silenzi, nei non-detti, le persone importanti della mia vita hanno parlato agendo, o con sfumature minime delle espressioni dei volti. Per poter dare un senso al mio mondo di origine, ho dovuto imparare ad ascoltare e a interpretare tutto ciò che c’era oltre quei silenzi. Come quando ti manca un organo di senso e compensi potenziando gli altri, io sono stata costretta ad affinare la mia sensibilità. Così ho pensato che la miglior maniera di rappresentare tutto questo silenzio era di mettere i miei personaggi nel grande teatro silenzioso che è l’Abruzzo e lasciarli liberi di fare e di non fare, ma liberi di essere.

Com’è riuscita a rendere il dialetto letterario e non una semplice posa?
Sono stata aiutata dalla familiarità con una sorta di lingua che ho definito “mediana”, realmente esistente, che è quella dei miei genitori, di una generazione di anziani che non ha mai avuto un accesso reale alla lingua nazionale, e che ha avuto come unica lingua il dialetto. Quello che io riporto è il tentativo di mediazione che tutta questa generazione fa quotidianamente quando è costretta a relazionarsi con i parlanti d’italiano. In Abruzzo, si cambia dialetto, secondo i miei calcoli, ogni cinque chilometri. Se io avessi voluto usare un dialetto in particolare, quale avrei dovuto usare? E se l’avessi voluto usare in maniera fedele, questo dialetto sarebbe risultato incomprensibile non solo nel resto di Italia, ma anche per una parte dell’Abruzzo stesso. Per questo, ho sacrificato il rigore filologico, preferendo usare una lingua vera. Esibire il dialetto, ammiccare al lettore, perché, diciamolo, il dialetto fa subito colore, fa subito simpatia, era una cosa che non mi interessava, non volevo che il dialetto distraesse il lettore.

In diversi suoi libri, l’acqua ha un fortissimo valore simbolico. La figura materna, fluviale, del suo primo romanzo, la pioggia nell’incipit di “Borgo Sud”, la grandine nel giorno del funerale della madre delle protagoniste e il mare evaporato nella casa estiva dell’“Arminuta”. In che rapporto tematico, metaforico, si trovano le storie che racconta con questo elemento naturale?
L’acqua per me ha un valore narrativo, soprattutto quando gli eventi atmosferici sono violenti. Uso la pioggia, la grandine, il temporale in un modo quasi magico, come sottolineatura, punteggiatura, come premonizione. Sicuramente è dalla mia infanzia che trae origine questa attenzione all’acqua e alla forza degli elementi naturali. Sono nata e cresciuta in un posto molto impervio ed isolato dell’Abruzzo pedemontano e, per andare a scuola, percorrevo ogni mattina due chilometri nel bosco. Era un percorso che mi terrorizzava, avevo paura dei temporali, del vento, dei fulmini e delle piogge violente. Ovviamente c’è un rimando alla maternità, che è un tema sempre presente, ma nella sua ambivalenza: quella stessa acqua che accoglie l’inizio della vita, l’acqua intrauterina, è poi un’acqua che si ritira, che non è capace di contenere.

A proposito di maternità. Nei suoi romanzi, le madri sono streghe che lanciano maledizioni, le sue personagge si scambiano oggetti magici, amuleti segreti, talismani. Cosa risponde a coloro che considerano la sua narrativa troppo ancorata a modelli letterari riconoscibili, come Elsa Morante ed Elena Ferrante?
Io lo prendo come un complimento. Non voglio di certo disconoscere l’influenza di queste grandissime scrittrici, ma sento una provenienza diversa, che mi riporta alla mia terra, un isolamento geografico che ho vissuto come in un tempo arcaico, primitivo, nella mia infanzia. Ho assorbito tutti questi elementi non dalle letture, ma in presa diretta dalla vita. La stessa scena terribile della maledizione, terribile perché è una madre che maledice sua figlia, io l’ho vista da bambina. In quel caso si trattava di una madre anziana che gettava la maledizione su un figlio maschio adulto. Per tantissimi anni non ci ho mai più pensato, quando poi mi sono ritrovata in quella scena di violenza, in cui era saltato qualsiasi controllo dei ruoli nel rapporto tra madre e figlia, mi è improvvisamente riapparsa.

Lei scrive della fede utilitaristica della madre dell’“Arminuta, attraverso gli occhi di sua figlia: «Quando le serviva qualcosa le si popolava all’improvviso tutto un cielo di santi e Madonne, io da ragazza la compativo per quello. Avevo già allora una fede diversa, la sera a letto consumavo le pagine di Cime tempestose». Qual è invece il suo rapporto con la religione?
Essendo stata costretta nella prima parte della mia vita ad aderire a quel tipo di fede, materna, costretta ad andare in Chiesa, a insegnare il catechismo ai più piccoli, mi sono poi avviata in direzione opposta, in modo reattivo, e quindi forse anche in modo un po’ stupido. Attualmente, penso di avere un rapporto con il divino, con il trascendente, ma non posso, non riesco ad applicarci nessuna etichetta, nessun nome di Dio. Ricordo di aver avuto scontri violentissimi fin dai tempi del liceo con il mio professore di religione. Potrei dare una buona responsabilità di questo mio allontanamento, come l’Arminuta, anche alle letture che facevo durante l’adolescenza.

E cosa leggeva in quegli anni?
Leggevo tantissimo Sartre e di sicuro quei libri non mi portavano proprio in quella direzione.

In “Borgo Sud” ricorre invece il nome di Pavese. Quanto è stato importante per lo sviluppo della sua coscienza di scrittrice?
Ecco, Pavese è stato uno dei pochi autori che ho letto e riletto durante la vita. Anche i suoi libri sono stati tra le letture della mia adolescenza. Rileggendolo poi da adulta, l’effetto è stato totalmente diverso. Penso che sia uno di quegli scrittori che ha una voce così profonda da costituirti, fondare una parte di te. Se scrivi, anche a distanza di tanti anni, qualcosa di Pavese riaffiora sicuramente, riemerge, come il fiume carsico. La grandezza della letteratura è proprio questa: nutrirsi di letture, filtrare il materiale, assorbirlo, trasformarlo e restituirlo sotto forma di scrittura. Questo per me vale non solo per Pavese, ma anche per i poeti ermetici, soprattutto Ungaretti. Quel ritmo, quella metrica, quei versi così asciugati, riarsi, sono stati fondamentali per la mia scrittura in sottrazione.

Tutte le protagoniste dei suoi romanzi sono donne. In “Borgo Sud”, per la prima volta, uno dei personaggi che a lungo prende la scena è un uomo, questa volta omosessuale. Come mai questa scelta?
La prima idea che ho avuto di Borgo Sud è stata proprio quella: un tradimento compiuto da parte di un marito omosessuale. Credo che questa idea fosse dovuta alla necessità di mostrare un rapporto in cui ci fosse pochissima consapevolezza, sia di sé che dell’altro, da parte degli attori di quel matrimonio, vissuto come patto rassicurante. Ho messo insieme due personaggi, uno di fronte all’altra, perché emergessero pian piano le contraddizioni, le crepe di un legame che si era consolidato più come una scelta difensiva che come progetto di vita. Lei, sofferente, sempre in fase post-traumatica; lui, scisso, con parti di sé non riconosciute, negate. È solo nel matrimonio, in quel tradimento necessario, che lui si sentirà libero di accettare e condividere quella parte di sé che ha sempre taciuto.

Ci sarà un terzo libro, magari sulla vecchiaia dell’“Arminuta”?
No, non ci sarà. Un’idea diversa comincia già a lavorare dentro di me, attualmente sono in fase di incubazione, e poi c’è sempre sullo sfondo quell’idea del memoir.

Chi vincerà lo Strega?
Chi prenderà più voti (ride, ndr).