Attaccare Rafah o fermare l’operazione. Sperare in un accordo con Hamas assecondando i parenti dei rapiti, buona parte dell’opinione pubblica e i partner internazionali o dare ragione alla destra radicale che vede col fumo negli occhi qualsiasi intesa con chi ha colpito lo Stato ebraico. Per il premier Benjamin Netanyahu sono ore decisive. E lo sono anche in quell’ultima città nel sud della Striscia di Gaza, dove sono rifugiati i restanti battaglioni di Hamas: il luogo della battaglia decisiva tra la milizia palestinese e Israele. Da giorni gli aerei delle Tsahal hanno ripreso a bombardare la zona dove i combattenti di Hamas si nascondono tra i tunnel, gli edifici civili e facendosi scudo con gli ostaggi e milioni tra residenti e profughi. Solo l’ultimo attacco realizzato dai jet dello Stato ebraico avrebbe fatto più di 20 morti. Ma Netanyahu, che ha più volte avvertito di un attacco non solo imminente ma anche indispensabile, appare intenzionato a prendere tempo aspettando soprattutto due evoluzioni. La prima, quella del negoziato con Hamas sulla liberazione dei rapiti (33 secondo Kan News) e la tregua. La seconda, quella del nuovo tour del segretario di Stato Usa, Anthony Blinken, in Medio Oriente, che – dopo essersi recato in Arabia Saudita – è atteso anche in Israele.

Le trattative con Hamas sono a un punto di svolta. La massima pressione con la minaccia dell’assedio di Rafah sembra avere indotto la milizia palestinese a una maggiore propensione all’ascolto. I funzionari di Hamas sono tornati al Cairo per discutere l’ultima offerta di Israele (40 giorni di tregua e migliaia di detenuti palestinesi rilasciati, secondo il ministro degli Esteri britannico, David Cameron). Il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, ieri ha detto di essere “fiducioso” sulle discussioni poiché “la proposta ha tenuto conto delle posizioni di entrambe le parti”. E anche Blinken ha fatto capire che il pallino del gioco è nelle mani palestinesi. “Hamas ha davanti a sé una proposta straordinariamente generosa da parte di Israele. E in questo momento, l’unica cosa che si frappone tra il popolo di Gaza e un cessate il fuoco è Hamas. Devono decidere e devono decidere in fretta. E spero che prendano la decisione giusta”, ha detto il capo della diplomazia Usa. Segno che l’amministrazione Biden ha tutta l’intenzione di arrivare a un accordo che risolva, almeno temporaneamente, due problemi: la crisi umanitaria nella Striscia e i timori di un attacco a Rafah che Washington ha ribadito di non volere. Netanyahu lo sa, ed è per questo che sta aspettando a dare il via libera all’operazione.

Gli Stati Uniti continuano a lavorare al completamento del molo che deve portare gli aiuti via mare all’exclave palestinese. Ma quello che preoccupa Biden non è solo l’allargamento del conflitto (ieri altri 20 razzi sono stati lanciati dal Libano contro Israele proprio da frange di Hamas nel Paese dei cedri) ma soprattutto una Striscia senza un piano per il presente e per il futuro. Al punto che Blinken ha già messo a punto con i sauditi un progetto per normalizzare i rapporti tra Arabia e Israele, soprattutto in chiave anti Iran, che passa anche per il dopoguerra a Gaza. “Per andare avanti con la normalizzazione, saranno necessarie due cose: la calma a Gaza e un percorso credibile verso uno Stato palestinese”, ha detto alla riunione del World Economic Forum a Riad. Tema su cui l’Alto responsabile della Politica estera Ue, Josep Borrell, sempre dalla capitale saudita, è andato anche oltre, annunciando che entro la fine di maggio diversi Stati membri riconosceranno la Palestina come Stato.Il pressing Usa è molto sentito da Netanyahu, che sa che Washington è un alleato troppo importante per rinunciarvi. Tuttavia anche le pressioni interne hanno un peso non indifferente nell’esecutivo israeliano.

E se i parenti degli ostaggi continuano a mobilitare l’opinione pubblica per far sì che il premier concluda un accordo il prima possibile, Bibi deve prestare attenzione anche a una destra radicale sul piede di guerra. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha già chiarito che il governo che non invade Rafah “non avrà diritto di esistere”. E il ministro della Sicurezza interna, Itamar Ben-Gvir, ha sostenuto che “un accordo sconsiderato equivale allo scioglimento del governo”. A sostenere l’intesa è invece l’opposizione interna al governo di emergenza, quella dell’ex generale Benny Gantz (e probabile prossimo premier in caso di elezioni anticipate), che al contrario dell’ultradestra pensa che “se si raggiunge un piano responsabile per la restituzione degli ostaggi con il sostegno dell’intero apparato di sicurezza – il che non implica la fine della guerra – e i ministri che hanno guidato il governo il 7 ottobre lo impediscono, il governo non avrà il diritto di continuare ad esistere”. L’esecutivo è spaccato. E mentre Hamas studia la controfferta israeliana, Rafah attende il suo destino tra la richiesta di aiuti e le Israel defense forces pronte a scatenare l’offensiva.