Previsioni e scenari sul prossimo governo
Italia a un passo dal baratro chiacchiera distrattamente…
Più buia di così, la crisi non potrebbe essere. Le fantasie dei dietrologi, opinionisti, retroscenisti, e chi più ne ha più ne metta, esimono dall’applicarsi, almeno in queste prime ore, allo sport delle previsioni su evoluzioni tutt’altro che scontate. Ci sono però un paio di considerazioni generali, che offrono un’angolatura più ampia, dalla quale guardare e valutare ciò che sta accadendo. Magari avendo a cuore anche gli interessi generali e non solo quelli delle singole, interessatissime, parti. Guardando alla big picture, al quadro complessivo, le grandi questioni sono due, in parte intrecciate, e che danno la misura della posta in gioco, al di là di poltrone, mutui da pagare e appelli, più o meno sinceri, alla drammaticità della situazione.
La prima misura della posta in gioco si chiama Recovery Plan. Lo scriviamo da qualche giorno, ma Federico Fubini sul Corriere della Sera di qualche giorno fa non avrebbe potuto rappresentarlo meglio. La soluzione della crisi, quale che sia, servirà a definire un nodo che oltre a interessare certamente il paese, interessa altrettanto certamente il ceto politico. È un elemento centrale di questa crisi, anche se si fa finta di non volerlo vedere. E pour cause. Il fantasma che aleggia sulla crisi è quello che riguarda chi amministrerà il tesorone dei 209 miliardi offerti dell’Ue. Dico amministrare, perché, come ricorda Fubini, non si tratta solo di compiere le grandi scelte strategiche sulle macro-missioni attraverso le quali rilanciare il paese. Aspetto certo già politicamente fondamentale per definire l’agenda dei prossimi anni. Però fin quando si tratta di titoli e di capitoli, lo scontro, per quanto ideologico, è pur sempre nobilitato dalle diverse visioni, o parvenze di visioni, politiche. Ha una sua dignità. E già questo giustificherebbe un approccio alla crisi basato sui contenuti, più che sulle alchimie coalizionali.
Ma amministrare è un’altra cosa e significa gestire, decidere, in poche parole, a chi e dove vanno i soldi (quelli che in larga parte i nostri figli dovranno restituire). Per quanto la parola “governance” imbelletti un po’ la questione, il tema è molto prosaico, soprattutto in Italia. E non a caso, come ricorda Fubini, è proprio sulla struttura di governance che il Piano è muto. Tanto da far insospettire gli stessi vertici europei. Chi amministrerà il Recovery, scusate la brutalità, spartirà i fondi e dunque, in buona sostanza deciderà chi ne trarrà vantaggio e chi resterà a bocca asciutta. Brutale cattivismo, si dirà. Ma, di fronte all’immagine di un paese avvitato su se stesso, è necessario che le verità vengano pronunciate. I prossimi anni saranno l’occasione per fare il bene dell’Italia o per puntellare una classe politica agonizzante alla ricerca disperata di consensi.
La seconda questione è in qualche modo legata alla prima. E riguarda il sempre più ricorrente ritornello, che intercetta le proposte di soluzione della crisi, e che vuole dividere in due il sistema politico con una nuova conventio ad excludendum. Ricordate la prima Repubblica, quella nella quale si diceva che i comunisti non potevano aspirare a governare perché legati a una visione dello stato incompatibile con i valori occidentali? Ritornate al futuro e scoprirete che la conventio sta tornando, sotto forma di divisione tra ursulisti e sovranisti. I primi sono coloro che si riconoscono nella cosiddetta Coalizione Ursula, quella che ha consentito l’elezione della Presidente della Commissione europea e il cui perimetro sarebbe definito dalla dichiarazione di sicura fedeltà all’Europa. Gli altri, sarebbero quelli che stanno dietro alla cortina di ferro, i sovranisti, antieuropeisti, antieuro. E per questi scatterebbe la conventio.
Una divisione piuttosto schematica se si pensa, ad esempio, alla contrarietà dei Cinquestelle al Mes, ma tant’è, lo schema è suggestivo e funziona bene per cercare di semplificare gli scenari per uscire dalla crisi politica.
Del resto, queste due dimensioni della posta in gioco, si completano perfettamente: la governance del Recovery Plan non può che essere affidata agli ursulisti. Il trionfo della coerenza. Tutto bene, dunque? Abbiamo trovato la chiave di volta? Manco per niente purtroppo. Primo perché, per restare nella metafora, essere europeisti non assicura minimamente sulla qualità della gestione. Le classi dirigenti italiane, anche quando il problema dell’antieuropeismo nemmeno si poneva, hanno sperperato e male utilizzato le opportunità offerte dall’Europa in misura tale da renderli dei primatisti nel continente europeo.
In secondo luogo, come accennato, l’europeismo degli ursulisti ha tante sfumature fino al punto di includere anche chi così europeista non dimostra di esserlo, avendo preferito la polemica ideologica sul Mes all’opportunità di investire quanto meritava e ancora merita nella sgangherata sanità italiana.
Infine, perché questa nuova conventio ad excludendum appare, in verità, l’opportunistica caricatura di quella del passato, tirata fuori dal cilindro per risolvere pasticci che con l’Europa non c’entrano un bel niente e che, almeno stando ai sondaggi, il paese non sembra riconoscere. Perché non ci vuole uno stratega dei sondaggi per sapere che, soprattutto in questo momento, la stragrande maggioranza dei cittadini, a qualunque schieramento appartenga, non rinuncerebbe mai all’aggancio con l’Europa. Ma se la narrazione si fa strada è anche perché riesce a trovare riscontri. E l’opposizione italiana, il centro-destra, anzi alcuni partiti del centro-destra non hanno fatto ancora abbastanza per confutarla e sottrarsi alla cortina di ferro dietro la quale qualcuno vorrebbe ricacciarli.
Insomma per l’opposizione questo è il momento della verità. Diversamente europeisti è una cosa, avventatamente antieuropeisti è un’altra. È questo il nodo che va sciolto. I segnali di fumo non bastano. Ci vogliono scelte e atti più chiari. Anche a rischio che qualcuno sia tentato di occupare lo spazio ideologico del No-euro. L’ubriacatura elettorale sperata potrebbe costare la marginalità politica di oggi. E il domani del successo farsi sempre più lontano e logoro.
La fatwa della conventio ad excludendum non è una prospettiva che ci si può augurare. Perché sappiamo quanti guai in passato ha prodotto. A cominciare da quella democrazia zoppa e indebitata di cui paghiamo ancora il conto.
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