Tre crisi ammazzano l’Italia. Quella della pandemia, che uccide mezzo migliaio di persone al giorno e che andrà, a quanto pare, sempre peggio; quella di un governo da operetta che cerca tromboni e donne cannone per cantare l’Aida. E quella infine della democrazia liberale che non ha mai attecchito.

Il sospetto è che questa terza sia la ragione della gravità delle altre due. Ieri la brava Alessandra Ghisleri – che è un po’ come George Friedman perché dalla meteorologia dei comportamenti avanza previsioni politiche – tabelloni dei sondaggi alla mano mostrava come gli italiani si aggreghino dovunque compaia una ciotola di riso o un gruppo parlamentare, tanto che ormai si è prodotto il solito miracolo di san Gennaro per cui Giuseppe Conte passa per un leader.

L’Italia non ha mai avuto una passione per la democrazia liberale. Né prima né dopo il fascismo. Lo spappolamento dei grandi eserciti che rappresentavano l’impero dell’Est e quello dell’Ovest ha lasciato come strascico una coda di bande armate e soldati di ventura, anche intellettuali. Certamente a noi non piace affatto l’idea di Salvini al governo col suo ridicolo “potere assoluto”, le sue madonnine e altre cianfrusaglie, ma certo è che fa una certa impressione vedere che l’unico collante che dovrebbe tenere in piedi un governicchio inconsistente e dissennato è soltanto la paura fottuta delle urne. Come dire che se lasciassimo fare a quella canaglia dell’elettorato, ci manderebbe tutti a casa.

Ma i giochi sono talmente avvitati che neppure l’ipotetica destra vincente (in caso di elezioni anticipate) sarebbe davvero contenta di andare al voto, perché il vero convitato di pietra è il malloppo dei quasi trecento miliardi da incassare dall’Europa che ancora aspetta di vedere i piani dettagliati di come sarebbero spesi questi soldi, perché per ora sono ancora delle larve in attesa che diventino pupe, bruchi e farfalle.

Lo spappolamento della politica ha portato a una serie di paradossi, incidenti, personalismi, idiozie, bugie, speranze e soprattutto incompetenze, prime fra le quali l’incapacità di prendere decisioni sull’epidemia. Fa impressione vedere che nessuno si chiede come fare a riconquistare l’elettorato che si dà per perduto, ma pensa soltanto a come contenerlo e sedarlo. Una serie di fatti casuali e altri che derivano dalla decomposizione cominciata alla fine degli anni Ottanta, hanno prodotto una catena di mostri e mostriciattoli che agiscono sulla scena politica senza una cabina di regia, senza suggeritore, senza neanche un pompiere di servizio.

La giornata di ieri è stata una delle tante in cui sembrava di aver raggiunto il fondo del barile, salvo scoprire che si sta già scavando un tunnel sotto quel barile. A noi sembra che il Presidente della Repubblica – che pure ha agito in uno stato di soffocante e anomala necessità quando si è trovato davanti al nuovo Parlamento e si è preso in carico un capo del governo arrivato per caso – adesso dovrebbe far sputare una crisi di governo e non quella specie di teatro giapponese che si recita fra il Quirinale e i Palazzo sottostanti.

I partiti non sono partiti e non hanno un capo e se ce l’hanno è fragile e inconsistente. Il primo ministro per caso ha tutto l’interesse a seguitare a vincere la lotteria che un giorno ha determinato la sua fortuna e le Camere sono alla pazzia collettiva come nel “Marat-Sade” degli anni Sessanta. Dunque, ci sembra che il Presidente farebbe bene a supplire le carenze di cui conosce tutta la genesi. La giornata di ieri, mentre era in corso d’opera, veniva definita un calvario, un gioco dell’oca e un urlo solitario della moglie di Mastella che per bocca di suo marito invitato ai microfoni di Un Giorno da Pecora dichiarava di non voler votare la riforma Bonafede sulla Giustizia che non prevede nessuna certezza sui tempi dei processi.

L’accaduto, uno dei tanti, al tempo stesso erra sensato e – per il contesto – del tutto dissennato. Tutti i commentatori politici convocati nel talk dell’après midi si dichiaravano stupiti ma al tempo stesso confortati dai misteri offerti dalla realtà. Il surreale dominava il reale in maniera più comica che prepotente evocando l’arte: in un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli, due devoti chiedono lumi al confessore sui loro dubbi religiosi ed escono sollevati dichiarando: “Venissimo a sapè, che so’ misteri”. Avevano la rassicurante conferma che un mistero è un mistero, come una pipa resta una pipa anche se Magritte scrive sotto che “ceci n’est pas une pipe” e ci mettiamo anche Gertrude Stein per il verso tautologico in cui ricordava che la rosa è una rosa è una rosa è una rosa. E la democrazia italiana che cosa è? Una non-pipa che resta una pipa o una quadrupla dichiarazione di essere una rosa? Secondo la sorridente Alessandra Ghisleri, lo dicevamo all’inizio, gli italiani si comportano come topi nel labirinto o come i prigionieri di un campo di concentramento, perché ormai non buttano niente e tendono ad aggregarsi a quel che c’è, persino al governo dell’avvocato d’affari miracolato sulla via della Dataria che porta al Quirinale e da lì assunto nel cielo politico anestetico in terapia intensiva come quella che già pompò e fece poi scoppiare come palloncini i partiti di Lamberto Dini, Antonio Di Pietro, Mario Monti e anche di Matteo Renzi che sbagliò un tempo e acciuffò poco più che un pugno di mosche.

La situazione è sia nota che misteriosa. Lorenzo Cesa dell’Udc, che era dato per acquisito come costruttore nella maggioranza del governo Conte, è stato segato dal procuratore Gratteri che l’ha accusato di collusione mafiosa. Ma la cosa più notevole ci sembra il fatto che lo stesso procuratore, volendo allontanare da sé il sospetto di praticare la giustizia ad orologeria, ha candidamente dichiarato di essersi prima accertato del fatto che Cesa avesse cambiato idea e avesse deciso di non entrare più nella maggioranza di governo. Se la logica non ci fa difetto, il procuratore non nega di agire tenendo d’occhio i tempi della politica, ma lo conferma. Avrebbe potuto dire: io rappresento la giustizia che non ha occhi né orecchie di fronte alla politica.
Il Presidente della Repubblica ieri veniva dato per “sconcertato”, perché ormai del Quirinale si danno bollettini simili alle previsioni meteorologiche. Intanto, Renzi e il gruppo di Italia Viva in una nota compatta si dicono preoccupati per lo stallo anche perché l’on Trizzino, considerato un vecchio amico di Mattarella, sostiene di saper come staccare i renziani da Renzi, mentre intanto il buon vecchio Tabacci con un berrettuccio di lana con pompon entra ed esce da Palazzo Chigi davanti al cui portone si forma l’intirizzita ammucchiata di cronisti microfonati ai quali lo stesso Tabacci dice di essere disposto a considerare se per caso “si profilasse un disegno alto e di prospettiva”. Né una parola di più né una di meno. E mentre il sottile intellettuale Cuperlo si aggirava con eleganza amletica, dagli schermi pomeridiani il sempre lucido Paolo Cirino Pomicino definiva “à la carte” la maggioranza dell’attuale governo.

La situazione rappresentata dal governo e dai suoi sciagurati supporter è di ora in ora più disperata e ridicola, mentre il morbo infuria, il pan ci manca, ma ancor non sventola bandiera bianca.

Paolo Guzzanti

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