Il “capo” Luigi Di Maio (mai nella politica delle democrazie questo titolo è stato usato o onorato) è felice di sé. Ride pregustando gli applausi perché ha preparato il numeretto come un diligente scolaro e lo esibisce slacciandosi la cravatta rosso bordò a pois bianchi. Si è dimesso, ma è già di ritorno. Lascia il campo, ma ne sta al centro. E abbraccia il capoccione di Vito Crimi, che gli succede al trono. Volevamo scrivere un suo ritratto statico, ma abbiamo l’occasione di farne uno a cavallo, anche se a dondolo, avendolo seguito ieri in diretta durante il rito templare nel tempio di Adriano, dell’auto-rottamazione per motivi misteriosi. Cioè: per nulla misteriosi. Luigi Di Maio ieri ha svolto una lectio puerilis sulla banalità del male, oltre che sulla malvagità del bene. Come un bambino al quale hanno rubato la bicicletta, tagliato la giacca, applicato pesci d’aprile e tirato i sassi per strada, ha scoperto che il mondo, il suo mondo, è pieno di traditori, opportunisti, arrampicatori sociali, venditori di fumo. Un’orazione veramente tenera.

Non ha mai parlato male della Lega e di Salvini e anzi, se non ci sbagliamo, ne ha accennato un fugace elogio rendendo omaggio a tutti i ministri dei due governi di cui ha fatto parte e dunque ha proprio salutato i nemici con maggior calore di quanto ne abbia dedicato agli amici. A lui va certamente il titolo di Arcitaliano, che è uno dei più difficili perché la posizione più comune e facile da sostenere è quello dell’Antitaliano. Lui era perfetto: un po’ Bertoldo e un po’ Pinocchio, molto Giamburrasca e una perfetta e pressoché ineguagliabile dose di banalità che però alla fine provocavano una certa voglia di lanciargli un fiore, magari un carciofo, perché la sua performance era a suo modo grandiosa e allo stesso tempo perdente.

Ha elencato con diligenza gli opposti estremismi che adotta: me ne vado ma non mollo, abbiamo governato benissimo facendo carrettate di errori, ci siamo fidati e non ci dovevamo fidare, però va detto che la cosa più importante è la fiducia altrimenti che cosa resta, a parte che a fidarsi troppo poi ti fanno la pelle e guardate a me che mi hanno fatto. Non solo a me, ma a noi che siamo gli onesti, fra cui si annida una manica di farabutti opportunisti e traditori: siamo gente che va alla guerra con coraggio e lealtà ma i nostri ci pugnalano alle spalle e insomma – signora mia – abbiamo trovato un mondo molto più complicato di quello immaginato perché, provate un po’ a pensare, è il mondo vero. E giù applausi. Senza saperlo ha rinnovato la logica del Marchesino Eufemio, uno dei pochi sonetti in italiano del Belli, che descrive il giovin signore che supera gli ardui esami riconoscendo che jambon vuol dir prosciutto e che Rome è una città simile a Roma. Lui ha scoperto con gioia che se è vero che “uno vale uno”, è pur vero che “uno non vale l’altro”, il che – se ci pensate – è geniale.

Ma non vorremmo essere fraintesi: Di Maio è geniale: non per titoli ed esami, ma per furor di popolo. E questa è la sua qualità e natura politica che lo hanno portato ad inspirare a pieni polmoni tutta la polvere del banale. Lui chiude una fase e potete giurare che ne apre una nuova. Lui aveva proposto l’impeachment di Mattarella ma lo loda e poi fa una dichiarazione d’amore a Giuseppe Conte avvertendo però che non è sempre d’accordo con lui, anzi, ma che se ha avuto paura vedendolo a Palazzo Chigi era solo per istinto materno. Elogia la visionarietà del progetto a Cinque stelle, ma avverte che non si cammina con le visioni perché la realtà è molto cattiva con i visionari specialmente quando non hanno letto i contratti in cui sono elencate le penali in caso di inadempienza. Se le cose vanno tuttavia a rotoli, tanto che il partito perde i pezzi e le elezioni, è perché “i peggiori nemici sono fra coloro che uno non immagina mai di avere”.

Bene, bravo, urla in delirio l’assemblea dei facilitatori che fanno parte della nuova zoologia politica. E, così dialogando con la folla, ripeteva la magnificenza del Nerone di Petrolini in gara con i plaudenti sotto il suo balcone. Che era a sua volta una caricatura del ducettismo di Mussolini il quale a sua volta si divertiva moltissimo con Petrolini, chissà se Di Maio l’ha mai visto almeno su internet. Ha denunciato con molta enfasi tutte le miserie umane e le ha attribuite tutte al suo stesso movimento o quel che è, offrendone al mondo un’immagine demenziale: nel movimento c’è infatti il “nemico interno” che è molto più subdolo di quello esterno e che spiega il fatto che i cittadini siano rimasti così delusi da voltarci le spalle.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.